In diretta dalle Farms: ovvero, quando il caporalato parla australiano

Riceviamo e pubblichiamo Dopo aver sentito parlare per diverso tempo da amici e conoscenti adesso posso dire di aver toccato con mano, seppure per pochi giorni, l’esperienza delle farm Australiane. L’estensione del Working Holiday Visa per il secondo anno deve passare proprio da qui, e la si ottiene prestando almeno 88 giorni di lavoro. C’è chi ne parla ‘benino’ e c’è chi descrive questi tre mesi pieni di lavoro come un vero e proprio calvario. Una cosa è certa: lavorare in un ristorante, in confronto, è una passeggiata. Le macchine hanno dato una mano negli ultimi tempi a svolgere […]
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Riceviamo e pubblichiamo

Dopo aver sentito parlare per diverso tempo da amici e conoscenti adesso posso dire di aver toccato con mano, seppure per pochi giorni, l’esperienza delle farm Australiane. L’estensione del Working Holiday Visa per il secondo anno deve passare proprio da qui, e la si ottiene prestando almeno 88 giorni di lavoro. C’è chi ne parla ‘benino’ e c’è chi descrive questi tre mesi pieni di lavoro come un vero e proprio calvario. Una cosa è certa: lavorare in un ristorante, in confronto, è una passeggiata. Le macchine hanno dato una mano negli ultimi tempi a svolgere certi compiti ma, senza le persone (al “giusto salario”), tutto resterebbe fermo. Ed è appunto di questo che vorrei parlare: della buon vecchia forza-lavoro, specialmente in questo paesino del Queensland, a circa un’ora di macchina da Brisbane.

Appena si arriva in paese e si chiede un lavoro in una farm viene detto a tutti di cercare la lista dei “contractor” da chiamare. Ebbene, chi sono questi contractor? Sono degli intermediari fra i backpackers (i ‘ragazzi con lo zaino in spalla’, di cui faccio parte anch’io) e le farm. Selezionano e indirizzano la forza-lavoro su tutto il “territorio” che li compete. Per territorio intendo tutte le conoscenze che possono avere coi vari farmers, contatti costruiti nel tempo e che li permettono di sapere di quante persone avrà bisogno il farmer giorno per giorno. In questo modo, i farmer si trovano riforniti di forza-lavoro ad un salario più basso di quello che potrebbe accettare un australiano medio, o chiunque possieda un visto permanente.

La cosa interessante (dal punto di vista del farmer, si intende) è che possono scegliere giorno dopo giorno, ordine dopo ordine, la quantità esatta di lavoro. Quella che gli serve per valorizzare al meglio la sua produzione, ossia raggiungere il massimo profitto possibile. E qui, come sempre, entrano in gioco i salari, l’olio degli ingranaggi capitalistici. Dal punto di vista del lavoratore (ossia di chi scrive queste righe) la situazione è un po’ meno rosea. Essendo variabile la richiesta di merci da parte dei mercati e considerate le stagioni di frutta e verdura succede spesso che la forza-lavoro sia in esubero rispetto a quella richiesta quotidianamente. Questo implica che è molto probabile essere chiamati a lavorare solo 3-4 giorni a settimana, e a qualcuno può andare anche peggio. Con evidenti conseguenze sul salario del lavoratore, già risicato negli ultimi anni, complice l’afflusso di decine di “proletari” da tutto il mondo. Per certi versi questo paese è proprio l’eccezione che conferma la regola: lo sviluppo disomogeneo del capitale porta sempre a nuovi cambiamenti di ordini, che alla fine, lasciano sempre più schiacciata la nostra classe.

Il salario non è l’unico fattore che pesa in questa disputa. C’è da fare attenzione al “come”, giorno dopo giorno si arriva a guadagnare quel salario. Quando si inizia a lavorare per un contractor, ogni sera prima di cena ti arriva un sms che ti avvisa se il giorno dopo lavorerai. Se non arriva niente, significa che avrai il giorno libero. Nel messaggio viene specificato a che ora avverrà il pick-up e ti viene chiesto di accettare o meno la proposta. Questo nella norma, ma può capitare di essere svegliati alle 6 di mattina da una chiamata che ti chiede: “ Scusa per l’ora ma, della gente ha rifiutato di lavorare oggi, saresti pronto fra 15 minuti se ti passo a prendere?”. Giusto per rendere l’idea della flessibilità a cui siamo obbligati verso lo stato australiano. Ogni contractor ha sotto di sé una catena gerarchica che dipende da quanti contatti riesce a stringere con i farmer nel tempo. E sono questi “bracci destri” che la mattina ti passano a prendere alle 4.30/5 (spesso tocca aspettarli anche mezz’ora al freddo) con dei pulmini ridotti ad un rottame (caricati al massimo di “capitale umano”) sfrecciamo per le campagne a tutta velocità per raggiungere la farm in orario stabilito. Ovviamente, il tempo per raggiungere la farm non è retribuito, ed a volte si impiega anche un’ora per raggiungere il luogo desiderato. Questo per quanto riguarda l’inizio dello “shift” (il turno di lavoro).

La cosa interessante, si fa per dire, è però che nessuno sa mai a che ora finirà. In alcune occasioni sono 6 ore, altre 8, ma può anche capitare di arrivare a lavorare fino a 11/12 ore. Spesso si lavora per più farmer: la mattina per uno, la sera per un altro. Senza contare che spesso si deve aspettare che tutti i lavoratori  abbiano finito prima di essere riportati in paese. Ma il contractor non si accontenta di non pagarti queste porzioni di tempo, si prende anche 8 $ al giorno dal salario per questo bel servizio. La quadratura perfetta di uno schema che mette sul piatto della bilancia capitalista sempre nuova carne da spolpare e in assenza di coscienza da parte dell’oppresso di turno, il meccanismo si reitera in una spirale sempre più avvitata verso il ribasso dei diritti e dei ritmi di vita. In agricoltura, come in tutti gli altri settori, di questo “unico”e, secondo molti, “definitivo” modo di produzione.

Si scrive caporale e si legge contractor, perchè a Foggia come a Gatton lo sappiamo su quali braccia fanno affidamento per vedere le offerte nei supermercati. Magari con un’etichetta

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