La paladina dei diritti umani Suu Kyi «Ignora il massacro dei mussulmani Rohingya»

Redazione di Operai Contro, ormai il prenio Nobel è sempre più sputtanato. Dopo il riconoscimento all’assassino Obama ora forse avranno il premio Putin e Erdogan per la tregua in Siria. La ” paladina dei diritti umani” ignora ( poverina ?) che in Birmania la minoranza mussulmana viene massacrata dal suo governo. Figlia di un golpista Aung San Suu Kyi ha conquistato il potere in Birmania, ma ignora i massacri dei mussulmani Un osservatore dal Corriere Da premio Nobel a premio Nobel. Ora non potrà più tacere. Tanto meno accusare la stampa estera di «creare artificialmente il problema». Aung San […]
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Redazione di Operai Contro,

ormai il prenio Nobel è sempre più sputtanato. Dopo il riconoscimento all’assassino Obama ora forse avranno il premio Putin e Erdogan per la tregua in Siria. La ” paladina dei diritti umani” ignora ( poverina ?) che in Birmania la minoranza mussulmana viene massacrata dal suo governo. Figlia di un golpista Aung San Suu Kyi ha conquistato il potere in Birmania, ma ignora i massacri dei mussulmani

Un osservatore

dal Corriere

Da premio Nobel a premio Nobel. Ora non potrà più tacere. Tanto meno accusare la stampa estera di «creare artificialmente il problema». Aung San Suu Kyi, per decenni paladina dei diritti umani, lei stessa isolata agli arresti per più di tre lustri dalla giunta militare birmana, è la destinataria di una lettera aperta, consegnata da undici premi Nobel, politici e attivisti internazionali al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che la invita a «non ignorare la tragedia dei Rohingya», la minoranza musulmana apolide e perseguitata che sopravvive in campi di fortuna e villaggi-prigione al confine con il Bangladesh.

«Nonostante ripetuti appelli rivolti alla Signora Aung San Suu Kyi — si legge tra l’altro nella missiva — siamo delusi che lei non sia ancora stata capace di assicurare ai Rohingya parità di diritti e cittadinanza». Un’iniziativa che lascerà il segno, considerato che è proprio il mancato riconoscimento da parte del governo centrale dell’«esistenza» dei Rohingya nel seno della nazione birmana (sono considerati immigrati illegali) ad aprire la strada per pogrom, persecuzioni, violenze settarie. A firmare l’appello sono personaggi quali l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, l’ex presidente di Timor Est Jose Ramos-Horta e ancora Malala, la più giovane attivista a ricevere il massimo riconoscimento per la Pace; tra i politici spicca l’ex premier italiano Romano Prodi. E c’è pure l’uomo d’affari britannico Richard Branson.

A spingere verso un gesto tanto clamoroso (non si erano mai visti tanti Nobel sollecitare insieme un «collega» di chiara fama), è la situazione sempre più precaria in cui versano decine di migliaia di Rohingya, uomini, donne e bambini. Da ottobre, infatti, l’esercito birmano — Tatmadaw — è impegnato in azioni durissime contro la popolazione musulmana, tali da far prefigurare «pulizia etnica e crimini contro l’umanità». Le violenze sono iniziate il 9 ottobre, con un sanguinoso attentato attribuito a «ribelli Rohingya» che ha portato alla morte di dieci agenti di polizia.

La risposta è stata rapida e spietata. E continua ancora a tre mesi di distanza, tanto che il ministero degli Esteri di Dacca ha fatto sapere come a oggi «circa 50 mila Rohingya abbiano cercato rifugio dalla nostra parte del confine». Nella lettera-appello non ci sono giri di parole diplomatici: «Se non si fa qualcosa subito, la gente comincerà a morire di fame se non per le pallottole». Anche Amnesty International, pochi giorni fa, aveva denunciato l’emergenza umanitaria in atto nell’Ovest della Birmania, nello Stato di Rakhine, dove vive la maggior parte del milione di Rohingya (su 53 milioni di birmani): da generazioni, suscitando la piccata reazione di Suu Kyi: «Tutte falsità». Ma i militari, denunciano le organizzazioni umanitarie, hanno raso al suolo interi villaggi, utilizzando anche armi pesanti. I morti si contano a centinaia. Una risposta, per i firmatari della lettera «pesantemente sproporzionata» perché «una cosa è fermare dei sospetti, interrogarli e istruire un processo. Ben diverso è usare elicotteri da combattimento sui civili, stuprare le donne e persino gettare bambini tra le fiamme».

Parole durissime che dovrebbero suscitare una reazione da parte dei membri del Consiglio di Sicurezza. Ma soprattutto, e certo la menzione non è casuale, Aung San Suu Kyi è chiamata finalmente ad agire. Perché se è vero che in Birmania i militari restano la forza dominante (a loro spettano per Costituzione i ministeri chiave di Interni, Difesa e Gestione delle frontiere), è un fatto che dalle elezioni dello scorso novembre la Lady è al vertice dello Stato. Non è il presidente perché, di nuovo, la Costituzione glielo preclude. Ma in quanto Consigliere di Stato e ministro degli Esteri guida di fatto il Paese. Per questo il suo silenzio è assordante.

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