“Per il bene dei nostri figli, chiudete il mostro Ilva”

Reportage dall’inferno dei Tamburi (Taranto), dove si muore ogni giorno Sabrina, 41 anni, tiene in braccio la piccola Gaia, sua nipote e orfana di padre, morto di tumore. Gliel’ha strappato l’Ilva. Gaia guarda il cielo e gli aerei pensando che suo padre stia lì. Frammenti di emozioni e foto da un quartiere “maledetto” in cui neanche i bambini riescono più a sorridere. E’ il 15 dicembre. A rione Tamburi di Taranto il Comune ha decretato il wind day (giorno di vento). Il vento sfavorevole porta i fumi dell’Ilva direttamente nelle case. Bisogna tenere chiuse le finestre e agli ingressi […]
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Reportage dall’inferno dei Tamburi (Taranto), dove si muore ogni giorno

Sabrina, 41 anni, tiene in braccio la piccola Gaia, sua nipote e orfana di padre, morto di tumore. Gliel’ha strappato l’Ilva. Gaia guarda il cielo e gli aerei pensando che suo padre stia lì. Frammenti di emozioni e foto da un quartiere “maledetto” in cui neanche i bambini riescono più a sorridere.

E’ il 15 dicembre. A rione Tamburi di Taranto il Comune ha decretato il wind day (giorno di vento). Il vento sfavorevole porta i fumi dell’Ilva direttamente nelle case. Bisogna tenere chiuse le finestre e agli ingressi del quartiere viene limitato l’ingresso nell’area. Siamo proprio a ridosso del mostro d’acciaio. Entriamo a casa di Sabrina, che abita in via Manzoni. Dalla veranda si vede dirimpetto il camino E312. Anche all’imbrunire è visibile la consueta linea di fumo scuro e carico di diossina. Si sente un rumore di fondo che accompagna la quotidianità dei 16mila abitanti del quartiere.

“Siamo dei morti viventi”. Già ad ora di pranzo lo chef di un ristorante tarantino ci aveva messo in guardia. “Noi che abitiamo ai Tamburi siamo dei morti viventi”. Ma è solo andando sul posto e respirando quell’aria malsana che ti aggredisce appena esci dall’auto, che inizi a intuire cosa volesse dire lo chef. E’ a casa di Sabrina che tutto diventa maledettamente chiaro. Sabrina tiene in braccio la piccola Gaia, sua nipote e orfana di padre. Nicola aveva 39 anni quando un tumore alla tiroide, nel 2014, lo ha strappato ai suoi affetti. Nel reparto in cui lavorava, all’Ilva, altre 15 persone hanno scoperto di avere grossi problemi alla tiroide. La sua foto è in vista su un mobile. Come è in vista la foto del papà di Sabrina, Giuseppe, deceduto nel 2012 per una neoplasia polmonare. Quello che un tempo era il lavoro all’Italsider, al “sidellurgico”, come lo chiamavano nel quartiere, è diventato un dispensatore di morte senza appello.

“Qui un tempo c’era grano e aria salubre”. A casa di Sabrina c’è anche sua madre, Graziella, 68 anni. “Quando eravamo ragazzi – ci dice – qui erano tutti aranceti, uliveti e grano. Saltavamo senza scarpe tra le spighe mentre la signora della masseria ci correva dietro”. Un idillio violentato da 50 anni di siderurgico. Quindici milioni di metri quadrati. Tanto è grande l’Ilva, con i suoi 12mila lavoratori diretti. “Con il raddoppio degli anni ’70 abbiamo capito che qui avremmo sofferto”, aggiunge Graziella. Suo marito Giuseppe prima di morire volle che tutti sapessero. Sotto la finestra di casa, in via De Vincentis, ha voluto che fosse impressa la scritta: ‘Ennesimo morto per neoplasia polmonare’. “Mio marito era un combattente”, ci spiega compassata, Graziella. “Era sempre lui a guidare le manifestazioni per chiedere sicurezza all’Ilva. Invitava a scendere in piazza i cittadini del quartiere timidi e impauriti”. Già, perché se si vuol capire cos’è il ricatto occupazionale bisogna entrare in questo quartiere, simbolo del lavoro che uccide. Simbolo del profitto di pochi industriali a scapito della salute di tutti. E numerosi studi, primo tra tutti Sentieri, stanno fotografando un’epidemia sociale. Tra tumori, problemi respiratori e morti anche tra i bambini. Un’emergenza che toglie il fiato solo a pensarci.

“Per i nostri figli, chiediamo la chiusura del mostro”. Chi vive nel cuore della pestilenza non ha dubbi né si affida a mezze parole. “Per salvaguardare i nostri figli – alza la voce Sabrina – chiediamo che questo ecomostro venga chiuso; che partano le bonifiche e un serio piano sanitario”. E invece la realtà, vista dai Tamburi, è un’altra. “Lo Stato con 10 decreti ha salvato l’Ilva, che continua a intossicarci tutti i giorni. Cambiano i presidenti, i Governi, ma noi rimaniamo qui a fare i conti con malattie, morte e un’aria maledetta”. La nipote di Sabrina, orfana di padre, guarda in cielo. E al passaggio di ogni aereo fantastica che suo padre possa lavorare lì sopra; che possa tornare. E invece il papà, a 39 anni, è morto per un carcinoma alla tiroide. Nessun aereo potrà mai restituirglielo. Era solo un numero di matricola a cinque cifre, per l’Ilva.

di Eugenio Bonanata

Ven, 16/12/2016 – 20:17
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