TUNISIA

da inventati.org Duccio Sorbini Sulle ragioni profonde della caduta di Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto nei primi mesi del 2011 esiste ormai un diffuso consenso di fondo: le rivolte sono state l’improvvisa esplosione di un lento accumulo rivoluzionario durato anni. In particolare, la rottura del patto corporativo che si trovava alla base dei regimi post-coloniali in entrambi i paesi nordafricani e l’implementazione di politiche neoliberiste ha prodotto una forte risposta dal basso, coagulatasi attorno a combattivi movimenti operai. Come sappiamo, per ragioni che non possono essere riproposte qui, le aspettative di “pane, libertà, e giustizia sociale” […]
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da inventati.org

Duccio Sorbini

Sulle ragioni profonde della caduta di Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto nei primi mesi del 2011 esiste ormai un diffuso consenso di fondo: le rivolte sono state l’improvvisa esplosione di un lento accumulo rivoluzionario durato anni. In particolare, la rottura del patto corporativo che si trovava alla base dei regimi post-coloniali in entrambi i paesi nordafricani e l’implementazione di politiche neoliberiste ha prodotto una forte risposta dal basso, coagulatasi attorno a combattivi movimenti operai.

Come sappiamo, per ragioni che non possono essere riproposte qui, le aspettative di “pane, libertà, e giustizia sociale” sono andate largamente deluse. Soprattutto però, cosa non meno sconfortante, esiste una certa retorica che propone il caso tunisino come l’unica storia di successo. Dopo tutto, ci viene spesso ricordato, in Tunisia le teste si contano (nelle cabine elettorali), mentre in Egitto queste vengono tagliate (non solo metaforicamente, purtroppo) dai militari e dalle forze di polizia. Per non parlare poi di quello che succede nella confinante Libia e nella non lontana Siria.

Non è nostra intenzione qui sostenere la stupida tesi che tutti i regimi politici siano uguali. Evidentemente non lo sono. Al tempo stesso però, vogliamo anche rifuggire dalla prospettiva che il governo liberaldemocratico che applica ferocissime ricette neoliberiste possa essere giustificato “come il minore dei mali”. Quello che la genesi del nuovo governo di unità nazionale in Tunisia ci dimostra – e questo è l’aspetto che più ci interessa sottolineare – è una stretta continuità tra l’autoritarismo di Ben Ali e il nuovo corso “democratico”. Tale continuità ha il suo punto di contatto nelle politiche di attacco alle condizioni salariali e di vita dei lavoratori e delle fasce più deboli della popolazione. La cosa non è sorprendente: dopo tutto lo sviluppo capitalistico diseguale costringe la Tunisia ad essere una grande manifattura tessile a basso costo per i mercati europei. E questo vale sia che le elezioni siano truccate, come ai tempi di Ben Ali, oppure free and fair, come amano scrivere i “sinceri” democratici della Tunisia odierna.

La formazione del nuovo governo

A partire dai primi mesi del 2016 la Tunisia ha avviato contatti sempre più frequenti con i rappresentati del FMI per ottenere un nuovo prestito che potesse “salvare” il paese da una situazione economica alquanto difficile, aggravata oltretutto da forti tensioni sociali e dalla costante minaccia terroristica. La crescita interna, infatti, che aveva sfiorato il 4 percento nel 2012, si è gradualmente raffreddata, attestandosi ad un deludente 0,8 percento nel 2015. Al tempo stesso, un forte squilibrio nella bilancia commerciale tra esportazioni ed importazioni (-11 percento nel 2015), sommato alla contrazione del settore turistico dopo la lunga serie di attentati che hanno colpito il paese, ha prodotto una vera e propria esplosione del debito statale che dal 53 percento del PIL nel 2012 è salito al 63 percento lo scorso anno, arrivando probabilmente a sfiorare il 70 percento al termine di questi ultimi dodici mesi.

Le richieste tunisine – che andrebbero considerate alla stregua della richiesta di una nuova dose di eroina da parte di un tossicodipendente – hanno trovato risposta ufficiale da parte del FMI il 20 maggio scorso, quando l’organizzazione con sede a Washington ha reso pubblico il Country Report No 16/138, dedicato specificatamente alla Tunisia. Ovviamente, il significativo prestito di quasi 3 miliardi di dollari in quattro anni concesso alla ex colonia francese giunge ad un prezzo sociale salatissimo. Come “suggerito” dal FMI, il governo tunisino dovrà lavorare alacremente per far quadrare i propri dissestati bilanci attraverso il congelamento della dinamica salariale, la sospensione delle assunzioni nella macchina statale, il rafforzamento delle esportazioni, e la cancellazione (totale o parziale) dei sussidi garantiti su numerosi generi di prima necessità. Come ironicamente chiosato da Youssef Echahed, deputato del Fronte Popolare, raggruppamento di una dozzina di partiti di sinistra ed unica forza politica che non è entrata a far parte del governo di unità nazionale: “sempre le stesse ricette da più di trent’anni”.

La notoria contrarietà dell’allora primo ministro in carica, Habib Essid, di adoperarsi in una direzione oltremodo liberista ha indotto il presidente della repubblica, Béji Caïd Essebsi, ad agire in prima persona. In un’intervista televisiva lo scorso 2 giugno Essebsi annunciava – in maniera alquanto insolita dato che il premier appartiene al suo stesso partito centrista e ‘laicheggiante’, Nidaa Tounes – la necessità della formazione di un nuovo governo di più ampio respiro. Erano passati, non appare superfluo ricordarlo, appena dodici giorni dal disco verde ufficiale del FMI ai nuovi “aiuti” per la Tunisia.

I fitti colloqui che si sono svolti nelle settimane seguenti hanno poi portato alla firma del cosiddetto “patto di Cartagine”, siglato il 13 luglio e sottoscritto dai principali attori politici e sociali del paese. Tra questi spiccano i maggiori partiti (Nidaa Tounes ed Ennahda, la forza islamista moderata divenuta maggioranza relativa in parlamento dopo la scissione che aveva colpito proprio Nidaa Tounes nei mesi precedenti); la principale centrale sindacale tunisina (la potente UGTT); e la massima organizzazione degli imprenditori (UTICA). L’accordo prevedeva esplicitamente il varo di un nuovo governo di unità nazionale con l’individuazione di quattro priorità: lotta al terrorismo, accelerazione del processo di crescita economica, ferreo contrasto alla corruzione e, soprattutto, implementazione di una nuova politica sociale.

Il costante rifiuto di Essid di dimettersi ha parzialmente allungato i tempi dell’iter parlamentare, ma non ha mutato il corso degli eventi. Il parlamento tunisino ha così votato la sfiducia al primo ministro il 30 luglio, mentre Essebsi ha incaricato l’ex ministro degli affari locali, Youssef Chahed, di formare un nuovo governo il 3 agosto. Il nuovo esecutivo poi, dopo essere stato presentato ufficialmente il 21 agosto, ha ricevuto la fiducia dal parlamento il 26, entrando ufficialmente in carica tre giorni più tardi.

Tutti insieme appassionatamente

Con una disoccupazione superiore al 15 percento, che raggiunge il 35 percento tra i più giovani, vasti settori della popolazione al di sotto o a ridosso della soglia di povertà (soprattutto nelle regioni del centro-ovest), decine di migliaia di persone che annualmente entrano nel mercato del lavoro, ed una forte polarizzazione della ricchezza, non è sorprendente che la decisione del neo-premier Chahed di accettare l’incarico sia stata strettamente legata al formarsi di un governo di unità nazionale, che comprendesse al suo interno non solamente i principali partiti politici, ma anche le maggiori forze sociali. La ratio è semplice e ben nota: gli attacchi alle condizioni di vita dei lavoratori devono essere portati avanti con governi di “emergenza” e con il bene placet dei sindacati, nella speranza che questo possa garantire stabilità politica e pace sociale. 

La partecipazione del corrispettivo della Confindustria nostrana al nuovo governo non può certamente sorprendere. Dopo tutto, le ricette proposte dal FMI vanno proprio nella direzione auspicata dall’imprenditoria tunisina, che vanta un settore manifatturiero fortemente connesso all’export (delle 5.591 imprese con oltre 10 dipendenti ben 2.506 erano “totally exporting enterprises” nel 2015) e quindi logicamente interessato ad un raffreddamento della dinamica salariale, con lo scopo di rendere le proprie merci più competitive sui mercati globali. Aspetti però, che non devono dispiacere troppo neanche agli investitori stranieri, visto che delle sopramenzionate 5.591 aziende ben 1.713 sono completamente in mani estere, con Francia (662 aziende) ed Italia (506 imprese) a giocare la parte del leone, soprattutto nel settore tessile.

Discorso più complicato, invece, quello che riguarda l’UGTT, che molti analisti hanno descritto come un forte sindacato social-democratico, spingendosi addirittura a scorgerne tratti rivoluzionari, negli scorsi anni. La decisione di appoggiare il nuovo governo di unità nazionale, ottenendo in cambio due ministeri, ha fatto gridare all’alto tradimento dell’UGTT. Nei fatti però, entrambe queste raffigurazione sono assolutamente parziali, non riuscendo a cogliere le due principali ambivalenze presenti in quello che per decenni è stato il sindacato unico in Tunisia. Per prima cosa, si deve evidenziare un’ambivalenza ‘storica’, con l’UGTT che nel corso dei decenni ha costantemente fluttuato tra essere un “bras armé du régime” ed una reale opposizione sociale. Secondariamente, vi è un’ambivalenza ‘strutturale’, con una leadership spesso molto vicina al potere politico ed una base radicale e militante. In tal senso, l’accordo siglato dai vertici dell’organizzazione non ammonta in alcun modo ad una garanzia di pace sociale, con proteste e scioperi che potrebbero avvantaggiarsi di quelle federazioni regionali storicamente militanti (ad esempio, Sfax, dove si concentra il maggior numero di imprese manifatturiere) e di quei settori tradizionalmente radicali (comparto dell’educazione, postini e lavoratori delle miniere). Non scordando infine, l’appoggio che il Fronte Popolare, l’unica forza d’opposizione rimasta nel consenso unanime di matrice neoliberista, potrebbe fornire a nuove proteste. Insomma, sembra proprio che un governo di unità nazionale potrebbe non essere abbastanza per pacificare socialmente la Tunisia, che oggi come ai tempi di Ben Ali rimane sotto il gioco del FMI, il braccio armato del capitale americano ed europeo.

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