La classe operaia come “classe pericolosa”: da disciplinare, umiliare, annientare

Pubblichiamo l’articolo di Anna maria Rivera perché affronta dei temi molto importanti su cui pensiamo che gli operai debbano riflettere. La Redazione “Non è per vergogna che si fanno le rivoluzioni”. Ma “la vergogna è già una rivoluzione”. Così scriveva Marx nella lettera ad Arnold Ruge del 1843, aggiungendo che “se un’intera nazione si vergognasse realmente, diverrebbe simile al leone, che prima di spiccare il balzo si ritrae su se stesso”. Noi siamo, invece, un paese svergognato, che quindi non ha, per ora, alcuna prospettiva non dico di rivoluzione, neppure di un’ampia ribellione collettiva. Non ci si vergogna per […]
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Pubblichiamo l’articolo di Anna maria Rivera perché affronta dei temi molto importanti su cui pensiamo che gli operai debbano riflettere.

La Redazione

“Non è per vergogna che si fanno le rivoluzioni”. Ma “la vergogna è già una rivoluzione”.

Così scriveva Marx nella lettera ad Arnold Ruge del 1843, aggiungendo che “se un’intera nazione si vergognasse realmente, diverrebbe simile al leone, che prima di spiccare il balzo si ritrae su se stesso”.

Noi siamo, invece, un paese svergognato, che quindi non ha, per ora, alcuna prospettiva non dico di rivoluzione, neppure di un’ampia ribellione collettiva. Non ci si vergogna per la condizione servile o quasi-schiavile imposta a buona parte della classe operaia, soprattutto (ma non solo) a quella di origine immigrata, né per le morti bianche quotidiane che non fanno più notizia, neppure per i suicidi e gli omicidi istigati o indotti dai padroni delle ferriere: come nel caso di Abdelsalam Ahmed Eldanf, operaio della logistica, ucciso a Piacenza da un camion, durante un sit-in. 

E non ci si è vergognati per i lunghi anni di purgatorio inflitti ai 316 operai dello stabilimento Fiat-Fca di Pomigliano, segregati in un reparto-confino del centro logistico di Nola e tenuti inattivi e in cassa integrazione. Né per la vicenda dei cinque più noti per impegno e combattività: dopo la pena del confino per quattro di loro e del licenziamento per il quinto, Mimmo Mignano (poi reintegrato per decisione della magistratura), di nuovo il licenziamento, ma per tutti e cinque, colpevoli di aver osato un’amara satira anti-Marchionne. Infine – ne ha scritto qui ampiamente Giorgio Cremaschi – essi sono stati reintegrati: grazie alla loro determinazione, alla solidarietà attiva di un gruppo d’intellettuali, artisti, giuristi, sindacalisti e all’equilibrata sentenza della Corte d’appello di Napoli.

Quest’ultimo verdetto ha contestato (di fatto, anche se non fino in fondo) l’ideologia aziendale – condivisa dal tribunale di Nola che ratificò i licenziamenti – per cui i subordinati (nel senso più letterale del termine) sarebbero legati all’azienda da un rapporto di tipo servile, per l’appunto. Talché inscenare una protesta in forma teatral-satirica contro Marchionne – oltre tutto all’esterno dello stabilimento e fuori dell’orario di lavoro – sarebbe un atto d’insubordinazione nei confronti dell’azienda e del Grande Capo. Come recitava una sentenza del tribunale di Nola, quella protesta costituirebbe, più precisamente, una violazione “dell’obbligo di fedeltà”: cogente perfino “nella vita privata” e spinto fino al punto d’interdire l’espressione di “opinioni e critiche inerenti alla persona del datore di lavoro e/o all’attività da questi svolta . In barba all’articolo 21 della Costituzione e al primo articolo dello Statuto dei Lavoratori.

Insomma, i lavoratori dipendenti, in particolare gli operai, sono considerati al pari di sub-cittadini, essendo negato loro il diritto di critica che è garantito, almeno de jure, ai cittadini a pieno titolo (o quasi). Una tale “riformulazione in senso restrittivo dei diritti di cittadinanza” dei subalterni – scriveva Giuseppe Campesi in un ottimo saggio del 2003 (2006) – ci fa comprendere come siano in atto processi di ri-disciplinamento della forza-lavoro. Tali per cui “ai settori più recalcitranti” del proletariato post-fordista si applica un sistema di controllo che “ha come modello archetipale la tematizzazione del pauperismo in termini di classi pericolose”. 

In breve, la distinzione di ottocentesca memoria tra “classi laboriose” e “classi pericolose” va facendosi sempre più sfumata. Certo, da “classi pericolose” sono trattati, oggi, soprattutto i migranti e i rom. Ma in questa categoria che si credeva desueta sono di fatto inseriti anche settori della classe operaia, i quali talvolta sono oggetto delle forme più brutali di disciplinamento, ispirate da un cinismo e un sadismo che in alcuni casi eccedono le stesse ragioni del profitto.

Solo così ci si può spiegare perché, agli occhi dei dirigenti Fiat-Fca, scandaloso sia apparso il manichino impiccato del Marchionne pentito e non i suicidi reali di operai/e, vittime della loro persecuzione. Tanto più che quella forma di protesta si svolgeva quindici giorni dopo il suicidio atroce di Maria Baratto, operaia cassintegrata e attivista.

Quello di Maria, come gli altri suicidi o tentati suicidi tra i cassintegrati, sono parte di una tendenza più generale che riguarda anche il nostro Paese: la progressione dei suicidi detti economici (meglio sarebbe definirli sociali), i quali talvolta si consumano in pubblico o addirittura prendono la forma, pubblica e spettacolare per eccellenza, del suicidio per fuoco.

Simili atti si compiono non solo perché disperati/e per causa della propria condizione esistenziale, di lavoro o di non-lavoro, ma anche per non soccombere al sentimento di vergogna e per riaffermare in extremis la propria dignità. E’ paradossale che a provare vergogna siano non già i carnefici, bensì le loro vittime. Come già ha osservato il filosofo Fausto Pellecchia, “La vergogna sociale […] si abbatte, paradossalmente, proprio su quei soggetti che da sempre sono le figure più esposte e, di certo, le meno responsabili della crisi del capitalismo finanziario”.

Tutto ciò può accadere non solo perché siamo al tempo del più sfrenato liberismo, delle politiche di austerità e del Jobs Act, ma anche perché la dissoluzione dei partiti di massa, col loro ampio radicamento territoriale, e un certo ripiegamento delle grandi centrali sindacali hanno privato i soggetti sociali più deboli di riconoscimento, rappresentanza, difesa dei loro diritti. Sicché la loro insostenibile condizione di vita, di lavoro o di non-lavoro, e il conflitto col potere di turno divengono spesso irrappresentabili nelle forme collettive tradizionali e perciò non poche volte sono affidati alla singolarità e all’“eccezionalità” del gesto “disperato” o “folle”.

Si pensi alle “nuove” forme di lotta e protesta che vanno moltiplicandosi negli anni più recenti: atti dimostrativi sensazionali che consistono nell’imprigionarsi in una miniera oppure nel salire su una gru, un pilone, una torre abbandonata, per restarci un tempo più o meno lungo. Con la speranza di attirare l’attenzione delle istituzioni, dell’opinione pubblica e dei media su una causa poco nota o che non riscuote consenso sociale, oppure sulla propria condizione di meteci e sulla rivendicazione del diritto di avere dei diritti.

I protagonisti di questi atti sono spesso persone immigrate, quindi più discriminate e vulnerabili, ma non mancano affatto operai “autoctoni”. A maggio del 2015, lo stesso Mimmo Mignano compì l’atto di protesta di salire su una gru altissima, nel centro di Napoli, per restarci cinque giorni, oltre tutto astenendosi dal cibo.

Questo genere di proteste è una prova ulteriore della crisi e della lontananza della politica, intesa sia come rappresentanza dei diritti e delle rivendicazioni dei cittadini, sia come capacità di unificare e organizzare razionalmente i conflitti sociali.

(6 ottobre 2016)

 

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