È il capitalismo, bellezza

Redazione di operai contro, la borghesia trema. L’autore dello scritto dimentica di dire che gli imperialisti sono usciti dalla crisi del 1929 con la seconda guerra mondiale. Oggi è ancora peggio Un lettore di valerio Castronovo Che il capitalismo sia un sistema intrinsecamente instabile lo aveva sentenziato a suo tempo Karl Marx e da allora la validità di questo suo teorema è stato confermato ogni volta, sia pur con alcune varianti, dalle vicende susseguitesi dalla Rivoluzione industriale in poi, in quanto si è assistito in pratica a una pressoché costante curva ciclica dal profitto alla speculazione, dall’euforia al panico […]
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Redazione di operai contro,

la borghesia trema. L’autore dello scritto dimentica di dire che gli imperialisti sono usciti dalla crisi del 1929 con la seconda guerra mondiale. Oggi è ancora peggio

Un lettore

di valerio Castronovo

Che il capitalismo sia un sistema intrinsecamente instabile lo aveva sentenziato a suo tempo Karl Marx e da allora la validità di questo suo teorema è stato confermato ogni volta, sia pur con alcune varianti, dalle vicende susseguitesi dalla Rivoluzione industriale in poi, in quanto si è assistito in pratica a una pressoché costante curva ciclica dal profitto alla speculazione, dall’euforia al panico finanziario, da una brusca crisi a una pesante recessione. Senonché non è poi accaduto ciò che pensava l’economista austro-americano Joseph Schumpeter, secondo cui il capitalismo era destinato a non sopravvivere, in quanto vittima delle sue stesse contraddizioni: poiché, generando lungo la strada grosse concentrazioni monopolistiche e ineguaglianze così profonde da risultare alla lunga insopportabili, sarebbe stato surclassato da un socialismo di Stato, da una totale proprietà pubblica e collettivizzazione dei mezzi di produzione. Se le cose sono andate diversamente, lo si deve soprattutto all’avvento, nei Paesi democratici e industriali avanzati, del Welfare, di una rete di sicurezza sociale, che ha attenuato l’impatto delle crisi economiche e riassorbito man mano le conseguenze dell’eliminazione di molteplici posti di lavoro determinata dalle innovazioni tecnologiche.

Ma adesso avverrà ancora così? È questo l’interrogativo che, alla luce dell’odierna economia globalizzata e della “rivoluzione digitale”, ha posto con forza John Plender, editorialista del «Financial Times» e presidente dall’Official Monetary and Financial Institutions Forum, in un saggio ora tradotto in Italia dal titolo La verità sul capitalismo. Poiché la Grande crisi esplosa tra il 2007 e il 2008 non solo è stata persino peggiore di quella del 1929; ma è andata aggravandosi, negli ultimi tempi, in misura esponenziale la disparità di trattamento economico fra una ristrettissima élite di alti banchieri e manager e il resto della società: tanto più dopo il progressivo impoverimento del ceto medio già in corso. Peraltro, a questa diseguaglianza sempre più accentuata nei Paesi del cosiddetto “Primo mondo” fa riscontro la riduzione dell’ineguaglianza globale, in seguito ai tassi di crescita raggiunti in media negli ultimi decenni dalla Cina e da altri Paesi emergenti del Sud-est asiatico, superiori a quelli mai raggiunti prima d’ora dall’Europa e dal Nordamerica.

Secondo Plender, la forbice fra i proventi di un’esigua schiera di personaggi altolocati nel mondo degli affari e delle professioni più qualificate e i redditi della gran maggioranza dei cittadini americani ed euro-occidentali, si è ulteriormente dilatata. Poiché, dopo che si è provveduto in un modo o nell’altro negli Stati Uniti e altrove al salvataggio pubblico delle grandi concentrazioni bancarie private, non è venuta meno sia la loro incidenza lobbystica a livello politico ed elettorale, contro l’attuazione di regolamenti più restrittivi nei riguardi di spericolate scorrerie speculative, sia una finanziarizzazione pervasiva dell’economia rispetto alla produzione di beni e servizi con alti costi in termini occupazionali.

Si spiega pertanto come negli Usa i guadagni degli amministratori delegati, pari a poco più del 20% superiori a quanto portavano a casa i lavoratori comuni, siano balzati nel 2011 (fra stipendi e stock option) a una cifra astronomica, pari a oltre 230 volte. Certo, quello americano è un caso estremo; ma in Gran Bretagna, Germania e Svezia questa disparità di redditi risulta comunque fortemente aumentata ai giorni nostri, anche in seguito a sconsiderate politiche da eccessiva austerità rispetto a quelle di crescita.

Una così grave diseguaglianza di redditi, e quindi di ricchezza e tenore di vita, nonché di prospettive di mobilità sociale, ha eroso la legittimità del capitalismo. Senonché la questione cruciale sta nel fatto che, quantunque si siano dissolti (sotto la spinta di un’avidità a briglia sciolta dei rentiers), determinati valori etici del sistema capitalistico e si siano diffusi a macchia d’olio in Occidente il disagio e il malcontento nei confronti delle logiche di un capitalismo contrassegnato dalla centralità in assoluto del danaro, non si intravvedono concrete alternative al sistema attuale, per quanto possa risultare profondamente squilibrato e insicuro, e quindi denso di incognite. Tanto che non resta a Plender, a conclusione della sua approfondita analisi, che estendere al capitalismo la celebre definizione coniata a suo tempo da Winston Churchill nei riguardi della democrazia: ovvero, che essa è la peggior forma di gestione politica, a parte tutte le altre sperimentate finora.

dal sole 24 Ore del 14 agosto 2016

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