Checco Zalone, Quo vado?

PER IL DIBATTITO   Posto fisso: apologia o inutilità del lavoro? «… il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, non si sente soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. […] La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena viene meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro viene fuggito come la peste». Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, A cura di Norberto Bobbio, Einaudi, […]
Condividi:

PER IL DIBATTITO

 

Posto fisso: apologia o inutilità del lavoro?

«… il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, non si sente soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. […] La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena viene meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro viene fuggito come la peste».

Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, A cura di Norberto Bobbio, Einaudi, Torino, 1980, pp. 74-75.

 

chi non rimpiange il posto fisso, scagli la prima pietra.  A parte gli imbecilli, sono pronti a scagliar la pietra solo i padroni e coloro che hanno introiettato l’ideologia del capitale. Sicuramente la sinistra cialtrona comprende queste tre tipologie umane. Non so quale sia quella predominante. Sicuramente i più pericolosi sono coloro che hanno introiettato l’ideologia del capitale. Costoro dovrebbero stare in manicomio, invece son liberi di sputar sentenze, esaltando lavoro & sacrifici. Degli altri. Invece chi il lavoro lo patisce e lo contesta rischia di finir, lui, in manicomio.

Quo vado è un film il cui umorismo attiene più alla satira che alla comicità, nonostante il finale scade in un buonismo che piacerà certo a Bergoglio. Il film gode giustamente di un grande successo, ma non tanto imprevedibile, poiché è stato diffuso in 1500 sale, che costituiscono oltre al 40% delle 3800 sale italiane[1]. C’è da dire che era in concorrenza con un remake più effetti speciali, come Star wars. Il risveglio della forza, e un deja vu di spie e guerra fredda, come Il ponte delle spie. In poche parole: nulla di nuovo sugli schermi d’Italia. Forse, il successo nasce perché il film mette giocondamente il dito nelle piaghe aperte della sinistra cialtrona, che oggi ci regala il Jobs Act di Renzi, le «riforme» del pubblico impiego Made in Madia e le oscenità dell’ex boss delle cooperative del lavoro nero, Giuliano Poletti. È tutta una sinistra cricca che, per anni, ha preparato il terreno per queste «riforme», inscenando un’insulsa quanto criminale apologia del lavoro e dei sacrifici.

Il mito del posto fisso

Con toni briosamente surreali, il film evoca la mitica era del posto fisso che in Italia ebbe il suo massimo dispiegamento negli anni Settanta del Novecento. Fu allora che il Welfare State visse il suo apogeo, per presto rifluire lentamente, ma inesorabilmente, sull’onda dell’incipiente crisi. A suonar la tromba del cambio di clima, fu quel Enrico Berlinguer dalla triste figura, capo dei nazionalcomunisti (il vecchio Pci). Ai primi segni di affanno economico, invece di difendere le recenti conquiste sociali, Berlinguer invitò i proletari a dare un esempio di «austerità francescana»[2], ovvero ad accettare i sacrifici imposti dal governo dei padroni. E fu seguito a ruota dal suo compare Luciano Lama, capo della Cgil (con la cosiddetta Linea dell’Eur, febbraio 1978[3]). L’invito dei capi coinvolse quella parte del popolo della sinistra più vicina alle ideologie stakanoviste (apologia del lavoro) e pauperiste del nazionalcomunismo. Un assortito poutpourri, con contorno di catto-comunisti e radical chic. Ma il cui nerbo era costituito soprattutto da funzionari del partito e del sindacato, con codazzo di studenti e insegnanti in cerca di un «posto fisso» in qualche apparato. Tutti costoro avevano in comune la poca affinità con il mondo del lavoro. Quello vero. Ma non per la greppia. Come dimostrano prebende e vitalizi che molti boss politici e sindacali si son ritagliati.

I lavoratori, quelli veri, invece, accolsero l’invito obtorto collo. Giusto allora, essi potevano tirare un sospiro di sollievo, dopo anni di lacrime e sangue versate per la gloria del padronato italiano. Per pochi danari e con molti rischi, si erano rotti la schiena nelle fabbriche e nei cantieri d’Italia, in cui molti di loro erano fluiti per sfuggire alle campagne, dove regnavano sfruttamento e oppressione, spesso conditi dalla miseria più nera. Ma la loro condizione restava comunque precaria, soggetta ai chiari di luna dei padroni, col rischio incombente di incidenti: nei primi anni Sessanta, gli anni del boom economico, i morti sul lavoro ufficiali (Inail) furono oltre 5mila, negli anni Settanta scesero a 3mila, oggi sono 1300. Di pari passo sono però cresciute le patologie da lavoro, ovvero, la morte differita[4].

La prima repubblica, non si scorda mai …

Per molti lavoratori, l’alternativa era l’emi-grazione, per i pochi che avevano qualche santo in paradiso e che sapevano leggere e scrivere, l’alternativa era il posto fisso, soprattutto nel pubblico impiego, ma anche nelle nascenti industrie di Stato (e parastato).

Ma nulla cadeva dal cielo. A salari e condizioni di lavoro migliori della media (ma non tanto), soprattutto nelle industrie di Stato, facevano riscontro diffusi e spesso umilianti rapporti clientelari, crudamente descritti da Paolo Villaggio nel suo Fantozzi.

Grazie al clientelismo, Democrazia cristiana e Pci cementarono la loro base elettorale. Questa era la Prima repubblica dei Moro, dei De Mita e dei Berlinguer. E solo con una gran faccia di tolla, i loro politicanti eredi han cercato e cercano di nascondere le vecchie porcherie, esaltando il lavoro e incolpando del «disastro» i fannulloni del pubblico impiego. E, in generale, tutti i lavoratori.

Come ho detto, il posto fisso non era il paradiso, ma rappresentava uno status che oggi rimpiangono tutti i sani di mente, come Checco Zalone. Ma nel film c’è un aspetto più soffuso ma ancor più importante: l’attuale inessenzialità del lavoro. Checco svolge attività del tutto inutili. Come milioni di Fantozzi e, aggiungo io, come milioni di Cipputi.

Lavoro? No grazie!

Che il lavoro sia una maledizione, dannosa e pericolosa, lo aveva subito detto la Bibbia. Lo dimostrò poi Paul Lafargue (genero di Karl Marx), nel suo Diritto all’ozio [più volte pubblicato] e, più recentemente, Alberto Tognola [Lavoro? No grazie! Ovvero, la vita è altrove, Edizioni La Baronata, Lugano, 2010]. Se in passato potevano esserci dubbi, oggi è assolutamente evidente che il lavoro è anche inessenziale, inutile.

La gran parte dei lavori, oltre a mezzi di distruzione di massa (armi), produce oggetti altrettanto pericolosi, come le automobili altamente inquinanti, o inutili gadget, come gli iPad, e merci di lusso destinate a pochi privilegiati. Un’altra parte assai consistente di lavori è sorta per rimediare ai danni che le industrie capitaliste causano nel corpo degli umani e nell’ambiente in cui essi vivono. Questi lavori ingigantiscono il settore farmaceutico e sanitario, nonché le attività rivolte alla «manutenzione» dell’ambiente, più che alla sua salvaguardia vera e propria. Alla fine, per provvedere alle vere necessità degli umani, resta solo una parte minima di lavori, che spesso è insufficiente.

Tutti questi lavori, siano essi utili o inutili, creano una gran massa di ricchezza (plusvalore) che finisce diritta diritta nelle tasche di una banda di sfruttatori e parassiti, che possono dominare solo grazie alla protezione di un crescente esercito di sbirri. Ci impongono un regime oppressivo, condito con martellanti campagne terroristiche che cercano di lavarci il cervello,  presentando il lavoro e la miseria come «mali minori». Ma per digerire il boccone avvelenato, non bastano tutte le lacrime della Fornero.

Di fronte a questa triste situazione, che tenderà a degenerare, è assolutamente demenziale chiedere lavoro e ancor più esaltarlo!

L’unica richiesta che si possa avanzare, per restare in vita, è un salario garantito, sganciato da ogni lavoro, anche socialmente utile. Un salario che assicuri a giovani e vecchi una vita dignitosa, come si suol dire. E se lor signori non sono in grado di farlo, allora è meglio man-darli fuori dai piedi, con le buone o con le cattive.

Dino Erba, Milano 8 gennaio 2016.

[1] Antonio Menna, Numeri record per “Quo vado”, il film di Zalone. Ma dietro c’è una strategia studiata a tavolino, «Italia Oggi, 4 gennaio 2016.

[2] Convegno con gli intellettuali vicini al Pci, Teatro Eliseo, Roma, 15 gennaio 1977. Vedi anche: Giulio Marcon, Berlinguer. L’austerità giusta, Jaca Book, Milano, 2014.

[3] Vedi: http://contromaelstrom.com/2011/07/01/la-politica-dei-sacrifici-e-la-svolta-delleur-1977-78/

[4] Vedi: www.webalice.it/seba.50/dati.doc/

Condividi:

Comments Closed

Comments are closed. You will not be able to post a comment in this post.