Guerra nel Mar Cinese Meridionale

Redazione di Operai contro, nel primo fronte, in Medio Oriente lo scontro tra le grandi potenze è ormai con gli “scarponi sul terreno”, di ieri la notizia che gli Stati Uniti invieranno almeno 50 soldati nel Nord della Siria. Nel secondo fronte, nel Pacifico lo scontro avviene con cacciatorpedinieri. Qua è tra Russia e Usa, là è tra Cina e Usa. Il fatto è all’apparenza insignificante: una nave da guerra americana che gira intorno a qualcosa di più che uno scoglio. Se non fosse che lo scoglio sia una delle 8 isole del Mar Cinese Meridionale, le Isole Spratly, […]
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Redazione di Operai contro,

nel primo fronte, in Medio Oriente lo scontro tra le grandi potenze è ormai con gli “scarponi sul terreno”, di ieri la notizia che gli Stati Uniti invieranno almeno 50 soldati nel Nord della Siria. Nel secondo fronte, nel Pacifico lo scontro avviene con cacciatorpedinieri. Qua è tra Russia e Usa, là è tra Cina e Usa.

Il fatto è all’apparenza insignificante: una nave da guerra americana che gira intorno a qualcosa di più che uno scoglio. Se non fosse che lo scoglio sia una delle 8 isole del Mar Cinese Meridionale, le Isole Spratly, dove la Cina ha realizzato una specie di avamposto militare.

Le Spratly si trovano in mezzo tra Vietnam, Malesia e Filippine, un corridoio di mare fondamentale per le navi che dai porti cinesi vanno e vengono dall’Africa (e quindi dall’Europa) e dall’Australia.

Pertanto la Cina, che ne rivendica da sempre l’appartenenza (lo stesso ovviamente fanno gli altri Stati), ha pensato bene di “allargarle” e, usando sabbia locale, cemento e acciaio, vi ha costruito attracchi marittimi, caserme, sistemi radar e piste di aterraggio. Oggi, quelli che erano degli atolli invivibili sono in grado di ricevere truppe e rifornimenti, insomma la Cina ne ha fatto delle vere e proprie enormi portaerei (che non possono essere affondate) a mille chilometri dalle sue coste, da cui controllare le sue rotte navali. Rotte commerciali dove transitano circa l’80% dei suoi rifornimenti in idrocarburi e le materie prime di cui le sue fabbriche hanno bisogno per produrre e continuare a realizzare profitti.

Nel confronto tra il grande capitale cinese e quello degli altri Stati della zona si sono subito inseriti gli Stati Uniti altrettanto sensibili alle rotte commerciali del Pacifico. Finora il confronto in quei mari si era limitato al pattugliamento, alle esercitazioni congiunte di marine alleate, agli insulti che nelle comunicazioni tra le navi militari Usa in formazione pare si sprechino (si fa fatica a crederci che anche ciò sia diventato argomento di discussione diplomatica tra Cina e Usa).

Il 27 ottobre scorso il confronto ha però fatto un salto di qualità perché il pattugliamento americano è volutamente ed esplicitamente avvenuto entro le 12 miglia che connotano le acque territoriali di un paese. Una sfida e un messaggio di non riconoscimento della territorialità degli avamposti cinesi.

Immediate sono state le proteste del governo cinese che ha dichiarato che il passaggio del cacciatorpediniere Uss Lassen a meno di 12 miglia nautiche dalle isole Spratly, «senza aver avuto il permesso del governo cinese», costituisce una «minaccia alla sovranità della Cina». Di tutta risposta, mentre nel passato simili episodi venivano negati o minimizzati come errori, l’amministrazione americana ha fatto sapere che proseguirà simili attività di pattugliamento del Mar Cinese Meridionale.

Si può anche pensare che né la Cina, né gli Usa siano pronti a scatenare la terza guerra mondiale per uno sconfinamento marittimo provocatorio. Ma si può allo stesso tempo pensare che a questo punto la Cina, anch’essa nei morsi della crisi generale, alla ricerca di nuovi mercati per le sue merci e ad assicurarsi a più bassi costi le materie prime, smetta di creare e rafforzare gli avamposti militari che ritiene strategici per i suoi interessi vitali? Il ministro della difesa cinese il 28 ottobre dichiarava che “farà di tutto per proteggere la sicurezza del Paese messa a repentaglio dall’incursione di una nave da guerra americana”.

Ci vuole ormai veramente poco che di provocazione in provocazione tra le grandi potenze una di queste diventi il casus belli.

R.P.

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