Operaio Fiat licenziato

dal mediano.com A piazza Municipio hanno suonato per lui alcuni musicisti napoletani. E ieri lo hanno acclamato come un eroe. In questa intervista Mimmo Mignano racconta tutto.         Dopo una settimana passata a cinquanta metri di altezza, sulla gru del cantiere metro di piazza Municipio, senza acqua né cibo, Mimmo Mignano, 50 anni, operaio licenziato dalla Fiat, racconta momento per momento la sua vita sospesa a un ponte di ferro. Come si sente? “Non riesco quasi a camminare. Là sopra ci sono griglie flessibili per cui i piedi si sono abituati a camminare su una superficie elastica. Allora  […]
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dal mediano.com

A piazza Municipio hanno suonato per lui alcuni musicisti napoletani. E ieri lo hanno acclamato come un eroe. In questa intervista Mimmo Mignano racconta tutto.        

Dopo una settimana passata a cinquanta metri di altezza, sulla gru del cantiere metro di piazza Municipio, senza acqua né cibo, Mimmo Mignano, 50 anni, operaio licenziato dalla Fiat, racconta momento per momento la sua vita sospesa a un ponte di ferro.

Come si sente?
“Non riesco quasi a camminare. Là sopra ci sono griglie flessibili per cui i piedi si sono abituati a camminare su una superficie elastica. Allora  scendendo a terra ho avuto dei problemi, mi fanno male le ginocchia ”.

Ma dove dormiva ? Si fa per dire ovviamente…
“ Lì, a due metri da quella botola celeste, al centro della gru. Mi mettevo lì e… ”

Non rischiava continuamente di cadere?
“Si, ho avuto paura di morire. Ho passato dei giorni davvero brutti.  Poi con la forza nella lotta che mi tiene in piedi ho voluto rischiare”.

Poteva bere ogni tanto? Mangiare qualcosina?
“Di mangiare non se ne parlava. Guardi: sono dimagrito di parecchio. In una settimana ho dovuto fare altri buchi alla cinta. Ho bevuto pochissimo, quel poco che potevo…”.

Aveva scorte di acqua?
“No. Avevo qualche bottiglia che mi era stata data all’inizio. Poi però col passare dei giorni la forze dell’ordine hanno vietato l’ingresso nel cantiere di aiuti destinati alla mia persona. A un certo punto mi si è spento il cellulare e per la maggior parte del tempo sono stato isolato, lassù, da tutto e da tutti. Là sopra non ti sente nessuno”.

Marco Cusano non ce l’ha fatta a resistere, se n’è andato dalla gru al primo giorno…
“No, si è sentito male. A me dispiace perché è un compagno di viaggio che spesso mi trovo accanto. Lui è stato sempre qui sotto però, insieme ai precari e agli altri licenziati. Sarebbe stato più utile per entrambi  restare in due là sopra. Poi però sono rimasto solo e ho dovuto decidere tutto da me”.

Qual è stato il momento più difficile di questi sei giorni? 
“E’ stato l’ultima notte.  C’era vento forte. Alle tre e mezza ha fatto un’ acquazzone. Non riuscivo a riposare. Allora mi sono ficcato in quella botola circolare, ma era molto stretta. Non riuscivo a stare bene. Non ho dormito nemmeno un minuto. Mi sono messo a fare avanti e dietro sul ponte con un giubbino addosso. Ora mi sento le  ossa rotte. Un’esperienza del genere la reputo un po’ alla “dilettanti allo sbaraglio”. Io, abituato a fare le lotte davanti ai cancelli della Fiat, mi sono ritrovato solo, a cinquanta metri di altezza. E senza la precauzioni fondamentali”.

Non  le sembra un po’ mortificante dover fare questi gesti solitari ed eclatanti invece di attuare la classica lotta sindacale contro la Fiat, contro Marchionne, le sue politiche?
“Non è nel mio dna salire su una gru, anzi, a volte l’ho anche criticato. Però quando sono trascorsi i giorni su quel ponte e ho visto la solidarietà che c’è stata, tutta quella gente che mi sosteneva dalla strada. Addirittura le signore che abitano nei palazzi di piazza Municipio si affacciavano ai balconi per incitarmi a resistere.  Tutti mi osannavano, mi dicevano “Mimmo ce la devi fare”. Cinquanta ragazzi in bicicletta si sono messi a cantare al suono dei 99 Posse. Daniele Sepe si è messo a suonare la sua tromba qui sotto.  E’ venuto anche un violinista del San Carlo. Io davanti ai cancelli della fabbrica tutta questa solidarietà sociale non l’avevo mai vista. Intanto mi sono dovuto dare tanta forza. Sono uno che vince le cause di reintegro e che non riesce a rientrare al lavoro. Ho perso il contatto con gli operai all’interno dello stabilimento.  Eppure quando sono stato licenziato ero il rappresentante sindacale, l’rsu più votato di tutta la fabbrica di Pomigliano. Per me gli operai nutrono un certo rispetto. Ho dato tanto in quella fabbrica. Molte volte ho ripristinato la democrazia all’interno del luogo di lavoro. Ma questo è diventato l’arma con cui Marchionne mi ha licenziato”.

L’udienza del 21 maggio al tribunale del Lavoro di Nola  verterà sul licenziamento di cinque operai cassintegrati, lei compreso, che l’anno scorso inscenarono  con un fantoccio, un patibolo e una bara prima l’impiccagione e poi il funerale di Marchionne …
“Noi  facciamo un ragionamento: noi non stiamo dicendo che abbiamo ragione. E’ il tribunale che dovrà valutare e decidere sulla nostra pelle. Però se lo stesso tribunale che deve decidere sulla nostra pelle, sulla nostra sorte, non applica la legge allora non è colpa nostra. E’colpa del governo? Anche per questo mi sarebbe piaciuto se Renzi fosse venuto qui a Napoli, proprio qui, al cantiere della metro. Se c’è una legge Fornero che prevede che in quaranta giorni venga fissata la prima udienza tra datore di lavoro e lavoratore sui ricorsi contro il licenziamenti, ma poi questa prima udienza viene fissata dopo un anno… Noi siamo disoccupati, abbiamo perso anche il sussidio. Noi poniamo all’opinione pubblica un problema serio, un problema di democrazia, di legge. Noi vogliamo che si applichi la legge. Siamo stati dal presidente Mattarella nel giorno del suo insediamento. Gli abbiamo consegnato una lettera specifica proprio sulle negligenze del tribunale di Nola. Ma cosa dobbiamo fare per farci sentire, per far applicare la legge? Noi vogliamo solo che si applichi la legge. Noi chiediamo che questa causa venga chiusa nei limiti fissati dalla legge. Quindi si ripristina la democrazia, la legge. E se i giudici ci daranno ragione rientreremo in fabbrica, come pensiamo noi. Se avremo torto perderemo il posto di lavoro. Ma noi chiediamo che venga applicata la legge”.

Lei  è sempre stato protagonista del conflitto con Marchionne, la Fiat. Non pensa che ci possa essere anche una via diversa dal conflitto?
“Ma quale? Io  vedo anche la Fiom che cerca altre strade. Ma sono efficaci? Se la Fiat impone una dittatura interna, se la Fiat tiene qui tremila operai  in cassa integrazione, se la Fiat trasferisce i lavoratori a ridotte capacità  lavorative oppure sindacalizzati nel reparto confino di Nola, come ha fatto con i 316, ma di cosa vogliamo parlare? Io sono disposto pure a fare una trattativa. Io quando ero rsu  facevo le trattative. Se c’era un problema questo veniva risolto, se l’azienda lo capiva. Per cui lo sciopero veniva revocato: l’ho fatto un sacco di volte. Ma di cosa vogliamo parlare? Io voglio capire dove esiste la democrazia di Marchionne.  Marchionne ti mette il coltello o il cappio alla gola e ti dice “o fai quello che dico io o chiudo la fabbrica”. A quel punto non c’è più il rapporto fiduciario tra il datore di lavoro e il sindacalista. Se poi la mera azione sindacale deve essere andare in fabbrica con un mazzo di rose e dire signorsì, beh, questo non è nel mio dna. Ho messo in campo la lotta o, comunque, la rivendicazione, in base a ciò che succedeva in fabbrica. Faccio un esempio. A Pomigliano come minimo ci sono stati dieci morti sul lavoro. Centinaia di operai infortunati, invalidi, con le gambe amputate. Mi ricordo per esempio di Gennaro Berriola, che ho visto a terra, in lastratura. Lui da una parte e la sua gamba tagliata dall’altra. Invalido a vita. Ricordo l’operaio ucciso da un carrello elevatore, Giuseppe D’Amico, del quale stavano tentando di occultare il corpo. Ma un sindacalista cosa deve fare di fronte a queste situazioni? O piegarsi, fare il servo e dire di si a Marchionne e quindi puntare a entrare in fabbrica per non lavorare più, per far finta di lavorare, oppure alzare la testa e rischiare. Se il sindacato esiste come strumento di salvaguardia dei diritti dei lavoratori  rispetta in ogni caso la legge. Tutto quello che abbiamo fatto sia all’interno che all’esterno dell’azienda ha sempre rispettato la legge nei limiti e nelle forme della mera azione sindacale”.

Quante volte è stato licenziato?
“Tre volte: licenziato e poi reintegrato, quindi subito licenziato e di nuovo reintegrato e subito prima ancora licenziato per la protesta contro i suicidi. Sulla mia pelle sono state messe  a segno tante ingiustizie. Basti pensare che qualche mese fa è uscita una sentenza di cassazione che condanna la Fiat per rappresaglia nei miei confronti. Nei mie riguardi io vedo un accanimento enorme, politico. Ma la Fiat da me cosa vuole? Vuole tenermi a vita così? Io ho vinto le cause ma mi sono accorto che invece di riavere i miei sette anni  di stipendio il giudice me ne ha riconosciuti solo tre . Quindi alla fine ha vinto sempre la Fiat. Ho dovuto regalare quattro anni della mia vita alla Fiat: non esiste”.

Torniamo all’ultima vicenda. Non crede che aver esposto un fantoccio impiccato raffigurante Marchionne abbia impressionato lo stesso Marchionne, che forse ha visto quella cosa come una minaccia personale?
“A me viene da ridere quando  Marchionne dice che lo abbiamo “leso”. Io invece mi sono impressionato quando ho appreso la notizia dell’ operaia cassintegrata Maria Baratto, che s’è inflitta una serie di coltellate alla pancia, o quando ho saputo di Pino De Crescenzo, l’altro operaio cassintegrato che pure si è ucciso e che ho visto proprio il giorno prima del suicidio, davanti alla fabbrica, durante un’assemblea retribuita. Era esasperato. Noi abbiamo fatto qualcosa di molto simpatico, invece. Ricordo il finto funerale. Quella protesta servì. Tra i cassintegrati da allora si è diffusa l’idea che bisogna pensarci due volte prima di farla finita, che bisogna reagire. Noi abbiamo lanciato un messaggio positivo, costruttivo. Penso all’operaio cassintegrato Antonio Frosolone, che aveva  iniziato lo sciopero della fame e della sete poco dopo il suicidio di Maria Baratto. Gli abbiamo detto di non permettersi proprio. Se non avessimo fatto quella dimostrazione simpatica là fuori ci sarebbe stato qualche altro morto: questo lo possiamo affermare”.

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