i servi sciocchi

di Emanuele Salvati, operaio TK AST La vertenza TK AST si è conclusa. Lo scorso 3 dicembre al MISE, con la firma dell’ipotesi di accordo si è messa la parola fine ad una delle battaglie sindacali più lunghe e crude che il paese avesse ricordato in questi ultimi anni; uno stato di agitazione iniziato il 17 luglio scorso, 44 giorni di sciopero ad oltranza con blocco delle portinerie, due occupazioni dell’autostrada Milano-Napoli, l’occupazione della sede ternana di Confindustria, l’aula del consiglio comunale occupata per quasi un mese, la Prefettura presidiata e gli scontri con la polizia a Roma. Una vertenza […]
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di Emanuele Salvati, operaio TK AST

La vertenza TK AST si è conclusa. Lo scorso 3 dicembre al MISE, con la firma dell’ipotesi di accordo si è messa la parola fine ad una delle battaglie sindacali più lunghe e crude che il paese avesse ricordato in questi ultimi anni; uno stato di agitazione iniziato il 17 luglio scorso, 44 giorni di sciopero ad oltranza con blocco delle portinerie, due occupazioni dell’autostrada Milano-Napoli, l’occupazione della sede ternana di Confindustria, l’aula del consiglio comunale occupata per quasi un mese, la Prefettura presidiata e gli scontri con la polizia a Roma.
Una vertenza che per la durata e per il risultato finale ricorda molto quella della FIAT nel settembre 1980. Perché anche questa volta gli operai hanno purtroppo perso ed hanno perso in malo modo. La vertenza che era divenuta avanguardia di una nuova stagione di lotta operaia e di classe nell’intero paese, che poteva divenire esempio di radicalità e di unità proletaria contro il disegno del governo delle banche e della finanza volto a massacrare ciò che resta dell’ordinamento legislativo a difesa dei diritti dei lavoratori e del lavoro stesso, è finita sotto i colpi dell’eversione borghese.
Sembra sintassi pregna di retorica, un feticcio grammaticale indegno dei tempi, ma purtroppo non è così dato che anche questa volta, come a Torino 34 anni fa, l’azienda ha dimostrato non di essere più forte -assolutamente- bensì di essere la figura centrale e trainante -essendo la realtà economica predominante- di un pezzo di società maggioritario che sa ancora governare gli eventi. Il governo, la politica delle larghe intese, la giunta con il sindaco in testa, la presidente della regione Umbria, la Confindustria, l’azienda con la complicità di parte del corpo impiegatizio, hanno creato un fronte di rottura che ha permesso la precipitazione della vertenza.
Qualcuno ha scritto che la storia si ripete, la prima volta come tragedia e la seconda come farsa ed è quello che è accaduto; siamo dunque passati dalla marcia dei 40mila di Torino ai comunicati stampa del sindaco di Terni in cui si chiedeva la rimodulazione della protesta per poter “svelenire il clima”, alle parole minacciose del presidente della Confindustria ternana, alla raccolta firme organizzata da alcuni impiegati per imporre il ritorno al lavoro -con tanto di tentativo di forzatura dei blocchi- fino ad arrivare alla lettera di un impiegato ripresa subito dai giornali.
Lo sciopero ad oltranza con blocco delle portinerie -che erano rimasti anche durante le fasi della trattativa- sono stati, insieme alle manganellate subìte a Roma, il vero perno della lotta operaia ternana ed erano divenuti l’elemento che più parlava alle masse lavoratrici di tutto il paese e questo per il governo, intento a formulare il Jobs Act, era inaccettabile. Il ministro Guidi più volte aveva sollecitato la rimodulazione della protesta ma dai sindacati era venuto sempre un secco diniego, l’azienda quindi cominciava ad accusare il colpo –con gli ordini non spediti e le penali pronte- e pertanto era cominciata l’azione eversiva del gruppo di dissidenti, aiutati dai pennivendoli locali.
Azione che però non riusciva a trovare riscontro nel corpo operaio ed anche nell’ultima assemblea di giovedì 20 novembre i lavoratori decidevano all’unanimità di proseguire con gli scioperi e l’eventualità di una nuova programmazione degli stessi era rimandata in base a come sarebbe finito l’incontro al MISE fissato per il mercoledì successivo. Il fatto grave è poi avvenuto durante la riunine delle RSU di domenica 23 novembre in cui non si è rispettata la decisione dell’assemblea e si è deciso di iniziare ugualmente la rimodulazione degli scioperi. Perché? Che cosa è successo? Si è avuto paura di uno sfaldamento del fronte operaio? L’unità dei rappresentanti dei lavoratori si è dissolta sotto i colpi dei dissidenti che così facendo hanno permesso fughe in avanti di alcune sigle sindacali che avrebbero voluto firmare già da tempo? O peggio ancora, la politica ed i poteri forti locali hanno condizionato la riunione delle RSU che hanno quindi permesso il ritorno in fabbrica?
Un dato è certo, la rabbia degli operai che animavano i picchetti si è riversata anche contro il sindacato; la FIOM-CGIL ha prontamente organizzato un’assemblea per illustrare a tutti gli iscritti le ragioni del rimodulamento, per l’occasione fatte apposta spiegare dal “caro leader” Landini. La decisione della RSU ha portato come risultato l’abbandono dei picchetti da parte di molti operai con l’unica eccezione della Portineria Prisciano, la portineria dell’entrata/uscita mezzi, dove i sindacati hanno preferito concentrare gli sforzi.
Ma la teoria del controllo sull’uscita dei prodotti si è rivelata fin da subito astrusa, come pensavano i lavoratori e infatti l’ultima settimana è passata tra i tentativi dell’azienda di forzare i blocchi e i carichi fatti uscire appositamente come prova del reale controllo dei lavoratori sull’uscita delle merci e come “atto di responsabilità”. Mercoledì 3 dicembre la presunta svolta: dopo quasi 24 ore di trattativa serrata si è arrivati all’ipotesi di accordo e dal giorno successivo è iniziata la pantomima de “è l’unico accordo possibile” e del “più di così non si poteva ottenere”; frasi che già lasciavano intendere la difficoltà delle oo.ss.
Si sono, dunque, rivelati fondati e lungimiranti i timori dei lavoratori, che avevano paventato la possibilità di un accordo al ribasso, di una riproposizione del piano del ministro Guidi (piano alternativo, sbilanciato sulle posizioni dell’a.d. Morselli e presentato dal governo ed Enti Locali che è stato rigettato da azienda e sindacati) o comunque di un “accordicchio” che servisse solo al governo e alla TKAST. A Roma è stata infatti firmata un’ipotesi di accordo che altro non è che il “Lodo Guidi”, neanche “edulcorato” in qualche punto bensì proprio un tremendo “copia/incolla” che ha mandato su tutte le furie i lavoratori, in particolar modo tutti quegli operai che per 44 giorni avevano animato i blocchi ed erano stati la spina dorsale della lotta.
Non solo: sulla ipotesi di accordo non si specifica e non si delineano punti precisi sul futuro delle ditte terze se non per quanto riguarda il già esistente articolo 9 del CCNL. In particolare evidenza la beffa data agli operai dell’Ilserv, l’azienda costola della multinazionale Harsco che si occupa delle seconde lavorazioni il cui futuro rimane incerto per via della proroga dell’appalto fino al settembre 2015; questi lavoratori sono stati in molte occasioni la punta avanzata e radicale della lotta e ad oggi, se l’Ilserv perdesse l’appalto, si profilerebbe una massiccia cassa integrazione, causa ristrutturazione e, per chi venisse riassorbito dalla ditta vincitrice, un reinserimento a condizioni salariali minori rispetto alle attuali.
Tutto questo è esplicitato in un paragrafo del punto 6 in cui si parla degli “impegni delle istituzioni” e in cui si scrive che la Regione Umbria, Comune e Provincia di Terni si impegnano a “promuovere […]specifici protocolli, accordi ed iniziative finalizzati al rafforzamento delle competenze ed alla qualificazione del personale del sistema delle imprese appaltatrici al fine di favorire la continuità occupazionale ed il reimpiego dei lavoratori presso le aziende eventualmente subentranti in esito a procedure di appalto” ed “individuare nel contesto del quadro normativo nazionale, qualora necessario al fine di accompagnare il percorso di qualificazione ed efficientamento dell’indotto AST/TK, specifiche modalità gestione degli ammortizzatori sociali in deroga a favore delle imprese che abbiano esaurito gli ammortizzatori ordinari ovvero non abbiano accesso agli stessi”.
Ciò vale ovviamente anche per tutte le altre ditte terze, che subiranno il peso maggiore della massiccia ristrutturazione che si va profilando e i cui lavoratori, che hanno anch’essi animato i picchetti, si sentono per l’appunto abbandonati e presi in giro; e sì che una delle parole d’ordine che legava insieme la lotta degli operai AST e ditte terze e che la faceva essere quindi una vertenza unica era: “si inizia assieme e si finisce assieme”. La parte del documento riguardante il punto dirimente degli esuberi, prevede la fuoriuscita di 147 lavoratori che andranno ad aggiungersi ai 143 già usciti autonomamente -con il bonus di ottantamila euro- nella fase iniziale della vertenza; si raggiunge quindi il numero di 290 voluto dal ministro Guidi (e probabilmente consigliatogli da qualcuno) nel suo piano iniziale; tutte uscite volontarie che usufruiscono dell’incentivo con in più un anno di mobilità e su tale manovra si stabilisce parte della vittoria dell’azienda: il bonus infatti non è stato tolto, è previsto dall’accordo e verrà protratto.
Per questo, a pochi giorni dall’incontro al ministero, gli “esodi” volontari sono arrivati a più di 350 e sono destinati ad aumentare; non è difficile comprendere il fatto che l’azienda voglia arrivare al numero di esuberi previsto inizialmente e pari a 537, considerato il fatto che dopo l’accorpamento in seno all’AST del Tubificio, SdF, Titania ed Aspasiel, ci sarà una forte eccedenza di impiegati. Perché i sindacati non hanno preteso il blocco degli incentivi, una volta che si fosse raggiunto il numero di esuberi concordato? Perché si è permesso che l’azienda destinasse ancora ottantamila euro per le fuoriuscite volontarie? Tutto lo stabilimento è ora in grande crisi, tutti i reparti si trovano fortemente sotto organico e l’azienda dovrà quindi effettuare una grande riorganizzazione e ristrutturazione interna dei dipartimenti, delle mansioni e di tutta l’organizzazione del lavoro. Ed era proprio quello che volevano.
In che direzione ora si andrà? Si sfrutterà il demansionamento previsto dal Jobs Act facendo retrocedere gli impiegati in eccedenza ad operai? Si assumerà nuovo personale – sfruttando anche la mediaticità dell’azione- con le nuove regole del contratto a tutele crescenti anch’esso previsto dal Jobs Act? Di certo, l’aspetto legato agli esuberi è una grossa sconfitta per i sindacati, nazionali e locali, che hanno urlato durante la vertenza rispetto alla non disponibilità a non firmare nessun licenziamento ma che di fatto hanno avallato il disegno dell’azienda consentendole di attuare il piano originario.
Negli altri punti che riguardano il riassetto produttivo della TKAST, non si produce alcuna novità essendo il documento, come già scritto sopra, solamente un patetico copia/incolla del Lodo Guidi presentato agli inizi di ottobre al MISE; si parla quindi del mantenimento del mix produttivo tra “caldo” e “freddo” in grado di garantire una quantità minima di acciaio colato pari ad un milione di tonnellate l’anno (il piano Guidi parlava di assetto produttivo sui tre anni passati); rispetto al commerciale si attua un “rafforzamento della rete commerciale, nel contesto dell’inserimento di AST nella divisione TK Materials […]” che verrà gestito quindi in Germania, mentre a Terni si gestirà solo la parte amministrativa e le funzioni pre e post vendita, come prevedeva già il piano Guidi e come ugualmente era previsto il punto rispetto al mercato nazionale ed internazionale in cui si certifica la messa a disposizione per AST dei centri servizi ex Outokumpu in Germania, Francia, Spagna e Turchia -dovuti alla decisione dell’Antitrust UE- e a una struttura vendite in Germania appositamente dedicata; tutte disposizioni che risultano inutili se poi il pacchetto clienti e la ricerca di nuovi compratori avviene in Germania.
La parte inerente agli investimenti ripropone anche in questo caso ciò che era stato scritto e rigettato a Roma un mese fa: cento milioni di euro per sostenibilità ambientale ed energetica, mantenimento e miglioramento della sicurezza operativa, progetti di miglioramento dell’automazione di processo e miglioramento impiantistico (pochi, per un’area a caldo vecchia); 10 milioni per programmi di ricerca ed innovazione “valorizzando i marchi AST, Tubificio, SdF, ed Aspasiel e continuando la collaborazione con Il Centro Sviluppo Materiali” e con le università. Per quanto riguarda l’ambiente e la sostenibilità delle produzioni non si dice nulla, a parte il porre l’accento sul “forte impegno per il costante miglioramento delle condizioni di lavoro e della qualità dei prodotti finali” ma non si parla di investimenti e ricerca su nuove tecnologie impiantistiche per la lavorazione e l’inertizzazione delle scorie che sono la causa dell’importante problema a carattere ambientale che interessa il territorio ternano; perché sul piano non se ne parla?
Perché ancora oggi non risulta essere una questione importante da affrontare, specialmente in una sede appropriata come quella ministeriale? E sì che questo è proprio un punto nodale non solo per i problemi legati all’inquinamento dell’aria e delle falde freatiche ma anche per poter smascherare i reali piani dell’azienda circa il mantenimento, negli anni, dell’area fusoria. L’aspetto che interessa la questione del contratto integrativo vede sostanzialmente invariata la parte inerente alle maggiorazioni e presenza domenicale -con un piccolo aumento delle percentuali di pagamento- ma vede cancellati i premi trimestrali e le fasce di merito perciò con un saldo in negativo della retribuzione annua di circa duemila euro.
In questo contesto, il giudizio rispetto alla ipotesi di accordo non può essere che negativo ed il malumore tra gli operai è forte, non a caso le assemblee che si sono svolte subito dopo l’incontro al MISE non sono andate bene per i sindacati; si sono registrati interventi molto duri con aspre critiche rivolte ai confederali. Non possono bastare le rassicurazioni circa la vigilanza attiva delle RSU rispetto alla riorganizzazione interna e alla verifica del piano; non possono bastare cento milioni di investimento improntati su voci generiche; non possono bastare gli investimenti sulla “nuova” linea di ricottura e decapaggio proveniente dallo stabilimento di Torino (prevista già nell’accordo sul magnetico del 2004) e sul mantenimento della trasformazione dei semilavorati di titanio.
Non possono altresì bastare le assicurazioni riportate dalle istituzioni locali: gli impegni per il periodo 2014-2020 circa l’individuazione e la definizione di […] strumenti ed iniziative per favorire gli investimenti, l’innovazione, la qualificazione delle imprese nonché la salvaguardia dell’occupazione del sistema delle imprese dell’indotto e di servizio alle produzioni di AST/TK localizzate nel territorio regionale, promuovendo specifici programmi, destinazioni di fondi ovvero priorità dedicate” altro non è che l’utilizzo del fondo per le aree di crisi complessa, provvedimento approvato lo scorso maggio dal consiglio regionale ma che ancora deve essere sottoposto al vaglio del governo; la volontà di costruire bretelle stradali per favorire l’uscita dei prodotti e l’impegno, insieme al MISE, di terminare la costruzione della Orte-Civitavecchia, peraltro prevista da decenni e che era stata inserita sul Patto di Territorio che era stato stilato anch’esso dieci anni fa dopo la vertenza sul magnetico, suonano ai lavoratori come l’ennesima presa in giro, come l’ennesima corsa al risultato politico ma che dietro potrebbe nascondere il favoreggiamento dei potentati economici locali circa la volontà di una futura spartizione della fabbrica.
Il pericolo spezzettamento c’è ed uno stabilimento senza la realtà fusoria potrebbe essere, in futuro, preda facile dei falchi locali. I dubbi circa il mantenimento dell’AST per come si conosce oggi ci sono e lo si vede da come vengono gestite altrove le vertenze, sia in Italia e sia in Germania. La IG METALL, il sindacato tedesco, all’incirca tre settimane fa ha concluso un accordo con la ThyssenKrupp dove non si prevedono esuberi bensì contratti di solidarietà rispetto ad un periodo che va dal 2014 al 2020 e pertanto, a fronte di 35 ore settimanali se ne lavoreranno 31 e se ne pagheranno 32 con la 32esima ora pagata dallo stato. La stessa multinazionale che a Terni vuole ridurre le capacità produttive, il lavoro ed i diritti dei lavoratori, in Germania salvaguardia le produzioni, con investimenti massicci e soprattutto salvaguarda il lavoro e i lavoratori.
In Italia si è voluta gestire la partita della siderurgia abdicando all’autoregolamentazione del mercato e degli interessi delle multinazionali e degli altri paesi della UE. Premesso che la commissione europea, per mano dell’Action Plan della siderurgia, sta cominciando a dare forte impulso alla produzione di acciaio da forni ad arco elettrico (come quelli che si usano a Terni), scommettendo pertanto sul rottame per le sue qualità tecniche e per le sue caratteristiche di abbattimento delle emissioni nonché per la sua riciclabilità -in un ottica di riduzione dei rifiuti ferrosi e di sostenibilità ambientale- e in cui si prevede l’innalzamento fino al 20% del contributo della siderurgia al PIL europeo derivato anche dal tentativo di aggressione all’import di acciaio da paesi extra UE, strutturando una sorta di dumping ambientale legato appunto alla sostenibilità ambientale delle produzioni, in un contesto come questo la decisione della ThyssenKrupp parrebbe pertanto estremamente miope se non ci vedesse dietro la volontà di destinare le quote di produzione dell’AST verso altri siti di produzione.
Il pericolo è dunque rimandato e la verifica dell’accordo sottoscritto al MISE tra ventiquattro mesi lascia intendere che Terni, agli occhi dei grandi produttori europei di acciaio deve divenire solo un grande centro servizi. La partita è dunque solo rimandata. A Piombino si è siglato l’accordo con gli algerini di Cevital, in cui si prevedono investimenti pari a cinquecento milioni di euro per la costruzione di due forni elettrici aventi la capacità produttiva di un milione di tonnellate/anno ciascuno mentre Taranto, probabilmente, passerà sotto AcelorMittal dopo che lo stato avrà ripianato la situazione debitoria dell’Ilva e lo scoperto delle banche (Alitalia docet), prendendosi carico del revamping degli impianti per favorire la sostenibilità ambientale delle produzioni.
In questo nuovo assalto alla diligenza della siderurgia, il sindacato gioca un ruolo da spettatore passivo; la mancanza di una visione collettiva delle vertenze, la rinuncia ad avere un piano nazionale che tuteli il lavoro, le lavorazioni ed i lavoratori lo fanno essere addirittura complice rispetto all’idea iper-liberista della società che i partiti di governo hanno ormai nel loro dna. Inoltre, la vertenza a Terni sembra destinata ad assumere le sembianze dell’ultimo tassello che va a completare un puzzle: da una parte si è deciso, chiuse le vertenze come Piombino e Taranto, di chiudere frettolosamente anche quella su Terni per far avere ad ogni attore -governo e sindacati- la possibilità di giocarsi sui mass media la carta del soggetto risolutivo e fondamentale (anche in un contesto storico in cui si attacca la figura istituzionale del sindacato); dall’altra parte la FIOM e la CGIL possono “portare in dote” alla minoranza PD e anche a SEL il potere contrattuale derivatogli dalle vertenze come quella appunto di Terni, dagli scioperi come quello nazionale della siderurgia e come quello generale nazionale della CGIL del 12 dicembre per poter far loro concertare eventuali emendamenti e modifiche al Jobs Act, essendo questa una legge delega.
E su questo punto la FIOM/CGIL, l’organizzazione sindacale che più in questi anni ha rappresentato -e rappresenta ancora oggi- l’argine all’attacco classista del capitale, si gioca la sua credibilità e maggiormente se la gioca il suo leader Landini: a poco sono servite le minacce di occupazioni delle fabbriche che tanto avevano fatto sperare gli operai della TKAST durante la vertenza, a poco sono servite le manganellate a Roma, a poco sono serviti gli scioperi nazionali e le manifestazioni se poi il conflitto rimane prettamente vertenziale e non diventa diffuso. A Terni, la FIOM è stata l’organizzazione che più ha puntato sulla radicalità del conflitto ma che poi ha deciso precipitosamente di far interrompere sacrificandolo sull’altare forzoso dell’unità sindacale e questo è evidente.
A Terni perciò, il “Landinicentrismo” rischia di subire una inaspettata incrinatura. Il 15/16/17 dicembre si voterà per il referendum che sancirà l’approvazione o meno dell’ipotesi di accordo, si sta formando il comitato per il NO e il risultato non è così scontato, il malumore tra gli operai è forte e le assemblee per i sindacati non sono andate bene; ma l’insofferenza operaia travalica il giudizio sulla vertenza e apre fronti di forte critica sull’idea stessa e sul ruolo del sindacato; la fabbrica subirà forti modifiche e riorganizzazioni, le relazioni sindacali tramuteranno e probabilmente le condizioni lavorative peggioreranno anche grazie anche al Jobs Act; si è arrivati dunque ad un punto di non ritorno in cui la presenza di un sindacato conflittuale e classista non è più rinviabile. O le organizzazioni già presenti si muoveranno in questo senso, spinte dai delegati sindacali e dagli iscritti che in questa vertenza si sono contraddistinti per radicalità delle proposte, presenza e integrità morale, oppure i lavoratori costruiranno da soli un nuovo soggetto perché se non si risponde adesso a questo che è l’attacco finale alle acciaierie di Terni, la chiusura della fabbrica passera alla storia come la vittoria dei servi sciocchi.

francoppoli

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