Sionismo, l’ambiguità delle parole

Chiamiamo le cose con il loro nome! Di fronte all’ennesima aggressione israeliana contro il popolo palestinese sale la rabbia e il senso di impotenza, pensando che tanti sforzi per ostacolare lo scempio lasciano il tempo che trovano. Viene allora da chiedersi che cosa sarebbe successo, se quegli sforzi non fossero stati intrapresi… Ma allora, forse, qualche cosa non funziona nel modo stesso in cui si esprimono solidarietà e sostegno alla lotta dei palestinesi. Come da uno stanco copione, anche questa volta, si levano accuse e maledizioni contro il sionismo. L’aggressore è Israele. Israele è un Paese capitalista, strettamente legato […]
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Chiamiamo le cose con il loro nome!

Di fronte all’ennesima aggressione israeliana contro il popolo palestinese sale la rabbia e il senso di impotenza, pensando che tanti sforzi per ostacolare lo scempio lasciano il tempo che trovano. Viene allora da chiedersi che cosa sarebbe successo, se quegli sforzi non fossero stati intrapresi… Ma allora, forse, qualche cosa non funziona nel modo stesso in cui si esprimono solidarietà e sostegno alla lotta dei palestinesi. Come da uno stanco copione, anche questa volta, si levano accuse e maledizioni contro il sionismo.

L’aggressore è Israele. Israele è un Paese capitalista, strettamente legato ad altri Paesi capitalisti, in primis agli Stati Uniti d’America. Ma anche all’Italia. Il legame è di pretta natura imperialistica, basato com’è, fin dall’origine dello Stato di Israele, sul controllo delle fonti energetiche petrolifere e, parimenti, sullo sfruttamento delle masse proletarie arabe del Medio Oriente, di cui i palestinesi costituirono una parte preponderante[1].

Questo rapporto di oppressione e sfruttamento lega indissolubilmente Israele a tutte le cosiddette Potenze imperialiste, che parimenti opprimono e sfruttano altri popoli e soprattutto i proletari: gli Usa in America Latina (ma non solo), la Francia in Africa Equatoriale e via via tutti gli altri, in ordine sparso, e con maggior discrezione.

Parlo soprattutto di proletari, perché in quei Paesi, dove più e dove meno, la borghesia nazionale è ormai connivente con l’oppressione e lo sfruttamento, comunque avvenga, salvo alzar la testa per ottenere maggiori aliquote di plusvalore. In questo contesto, è emblematica la Palestina, dove i borghesi, da tempo, hanno scelto perfino di vivere all’estero, in posti più tranquilli e soprattutto più propizi ai loro affari.

E quando non voltano le spalle ai massacri, buttano acqua sul fuoco per evitare che le fiamme della ribellione lambiscano le loro oasi. Come è avvenuto e sta avvenendo in queste settimane, con la richiesta del cessate il fuoco[2].

Sionismo, fonte di confusione

Di fronte a questa realtà, parlare di sionismo è assolutamente fuorviante. Così come è fuorviante (se non decisamente reazionario) parlare di fascismo ogniqualvolta uno Stato borghese (e oggi tutti gli Stati sono borghesi) ricorre a misure autoritarie e repressive. Autoritarismo e repressione sono connaturati a ogni regime borghese, fondato sullo sfruttamento del lavoro proletario. E le parvenze democratiche non devono ingannare.

Il termine sionismo può nascondere il fatto che Israele è un Paese assolutamente democratico: le elezioni avvengono con il sistema proporzionale puro (ben più spinto di quello vigente in Italia ai tempi della Prima repubblica); la soglia di sbarramento è minima (il 2%) e dà spazio a una miriade di partiti e partitini. Attualmente, alla Knesset (Parlamento) sono presenti 12 partiti. Eppure…. tutti questi partiti e partitini (tranne le eccezioni che confermano la regola) si trovano d’accordo quando c’è da bombardare i palestinesi.

Così come partiti e partitini delle democrazie occidentali si trovano d’accordo quando c’è da sfruttare gli operai, varando quelle «riforme» del lavoro che in questi anni fioccano senza tregua. Seguite da limitazioni a scioperi e a manifestazioni, con contorno di arresti e mazzate che preparano il terreno a un’eventuale difesa armata della democrazia. Ovviamente, sulla testa dei proletari.

Come si vede, un comune filo conduttore unisce i proletari d’Occidente ai proletari di Palestina. Motivo per cui è proprio qui in Italia, in Europa, in Occidente che si può e si deve dare un importante contributo alla lotta dei proletari palestinesi. E non certo bruciando sinagoghe. Bensì rompendo in ogni luogo di lavoro la pace sociale dello sfruttamento e degli affari, infrangendo nelle piazze ogni divieto di sciopero e di manifestazione. Così come è avvenuto e avviene a Parigi e in tante altre città.

Dino Erba, Milano, 28 luglio 2014.

Sionismo, fonte di equivoci

Sionismo, colonialismo, socialismo

Il movimento sionista nacque alla fine dell’Ottocento, con lo scopo di trovare una Patria agli ebrei europei soprattutto a quelli della Russia zarista che erano sottoposti a violente persecuzioni. Motivo per cui, gli ebrei dell’Europa orientale hanno costituito la gran parte dell’emigrazione verso la Palestina.

La scelta della Palestina, oltre a motivi storici, fu favorita in particolare dall’Inghilterra per l’opportunità di mettere le mani su una zona cruciale per le comunicazioni internazionali (il Canale di Suez fu aperto nel 1869) e, in seguito, per controllare le fonti petrolifere del Medio Oriente.

Con queste premesse, inevitabilmente, fin dai loro primi passi, i sionisti si rivelarono aggressivi e colonialisti nei confronti dei palestinesi, nonostante si ammantassero di un’ideologia progressista e umanitaristica. Tanto è vero che la propaganda israeliana ha sempre esaltato (oggi assai meno) la partecipazione al movimento sionista di correnti socialiste (addirittura marxiste), rappresentate prima dal Mapai (Partito dei lavoratori della terra di Israele) e oggi dal Partito laburista israeliano. In realtà, quelle correnti furono assolutamente minoritarie e furono fortemente criticate dai socialisti internazionalisti ebrei che bollarono il sionismo come strumento di divisione e disorientamento in seno alla classe operaia di origine ebraica.

Il presunto socialismo sionista trasse poi spunto dall’adozione e dalla diffusione di un sistema economico basato sul kibbutz, forzatamente paragonato al kolchoz sovietico. Kibbutz e kolchoz sono forme di gestione aziendale collettivizzata che, comunque, nulla hanno a che vedere con una pur remota prospettiva socialista.

Vedi:

– Nathan Weinstock, Storia del sionismo. Dalle origini al movimento di liberazione palestinese, Massari Editore, Bolsena (Viterbo), 2006.

– Virgilio Verdaro (Il Gatto Mammone), Il conflitto tra arabi ed ebrei in Palestina (1936). Appendice: Ivo Sullam, Palestina e Israele oggi: la tragedia del nazionalismo (2011).All’Insegna del Gatto Rosso, Milano, 2013.

 

 

 

 

[1] Il proletariato palestinese, dopo aver alimentato buona parte della forza lavoro di Israele, negli ultimi vent’anni, è stato progressivamente sostituito da proletari provenienti da altre aree, soprattutto dall’Estremo Oriente. Di conseguenza, è stato via via emarginato nella condizione precaria di esercito industriale di riserva, soprattutto nella Striscia di Gaza, dove è periodicamente soggetto a «sfoltimenti» (massacri) più o meno violenti, per stroncarne preventivamente la ribellione. Vedi il mio breve articolo: Palestina, dallo scontro tra Stati allo scontro tra classi, gennaio 2009, in cui riporto l’articolo di Adam Hanieh, Palestina: Tra neoliberismo e potere Usa, pubblicato in origine dalla «Monthly Review» nel luglio 2008. Sicuramente, in seguito, saranno stati pubblicati articoli anche più approfonditi ma che in questo momento non ho a disposizione.

[2] Vedi a questo proposito: Kutaiba Younis, Warning, 15 luglio 2014.

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