BRIDGESTONE:Storia di un epilogo annunciato o quasi

di STEFANO BOCCARDI  «No, non abbiamo concluso niente. Anzi. Di fatto, si è tornati alla chiusura irrevocabile». Al telefono, mentre rientrano da Roma, i pugni in faccia sferrati dai capi della Bridgestone non si vedono, ma le voci dei sindacalisti che hanno partecipato alla riunione, non lasciano spazio agli equivoci. Le hanno prese di santa ragione. E ora se ne stanno tornando a casa come pugili suonati e intontiti dai cazzotti. Sì, chi (l’elenco è davvero lungo) tre settimane fa, dopo il primo incontro a Roma, aveva diffuso illusioni e “osanna”, ora deve quanto meno ricredersi. La vertenza Bridgestone […]
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di STEFANO BOCCARDI 

«No, non abbiamo concluso niente. Anzi. Di fatto, si è tornati alla chiusura irrevocabile». Al telefono, mentre rientrano da Roma, i pugni in faccia sferrati dai capi della Bridgestone non si vedono, ma le voci dei sindacalisti che hanno partecipato alla riunione, non lasciano spazio agli equivoci. Le hanno prese di santa ragione. E ora se ne stanno tornando a casa come pugili suonati e intontiti dai cazzotti. Sì, chi (l’elenco è davvero lungo) tre settimane fa, dopo il primo incontro a Roma, aveva diffuso illusioni e “osanna”, ora deve quanto meno ricredersi. La vertenza Bridgestone non solo non è stata risolta, ma, di fatto, non è stata nemmeno avviata a soluzione. E la ragione era ed è molto semplice.L’azienda o meglio i soci giapponesi della Bridgestone Corporation non avevano e non hanno mai cambiato idea rispetto a quanto comunicato, via cavo e via mail, il 4 marzo scorso. C’è una sola differenza, che a tutti gli effetti è un’aggravante, rispetto a quanto accadde un mese fa. Allora, e anche tre settimane fa, a metterci la faccia fu l’amministratore delegato della Bridgestone Europe, Marco Annunziato. Ieri, in quello che era annunciato come l’incontro della verità, Annunziato, questo manager italiano che non vede l’ora di chiudere l’unico stabilimento italiano della Bridgestone, non si è nemmeno presentato. Al tavolo ministeriale, davanti al presidente della Regione Nichi Vendola e al sindaco di Bari Michele Emiliano nonché al sottosegretario Claudio De Vincenti, ha mandato le seconde e le terze file dell’azienda. Con il risultato che ora quelle che restano sul tavolo sono tre opzioni (ristrutturazione, cessione e vendita) che vanno nella direzione opposta a quella indicata dai 950 lavoratori e fatta propria dall’intero fronte politico-istituzionale pugliese e nazionale.

La verità, amara, amarissima, la traduce in parole semplici il segretario generale della Filctem-Cgil nazionale, Emilio Miceli già subito dopo il vertice romano: «La sensazione è che la multinazionale giapponese non rinunci alla volontà di chiudere lo stabilimento di Bari». Se non è una dichiarazione di morte, ci manca pochissimo. E fanno quasi tenerezza le parole del presidente della Regione Nichi Vendola, il quale caparbiamente conferma la volontà della sua giunta di «aiutare Bridgestone a risolvere i problemi». Ma hanno capito i politici pugliesi, a cominciare dallo stesso governatore – tre settimane fa si erano illusi di aver risolto la vertenza – quali sono i problemi di Bridgestone? Se è vero, come afferma il sottosegretario De Vincenti, che «non sono tanto legati ai costi dell’energia e alla logistica, ma al posizionamento sul mercato internazionale», c’è poco da «aiutare».

Come si diceva, l’azienda, che finora si è solo preoccupata di prendere tempo, non ha alcuna intenzione di tornare per davvero sui suoi passi. E se sono vere le indiscrezioni che trapelano e vengono confermate da più fonti sindacali (a cominciare dal segretario provinciale della Cils Chimici, Sebastiano Buono, che nello stabilimento barese ha lavorato per più di 40 anni, per finire al segretario regionale della Confail Chimici, Luigi Giovannelli, che nella Bridgestone di Bari fa l’operaio), dietro le tre opzioni non c’è un bel niente. Sì, perché la «ristrutturazione» ipotizzata ieri a Roma altro non è che un’ulteriore opzione al ribasso. Altro che alta gamma. Altro che pneumatici per le auto di grossa cilindrata, le uniche che continuano a trainare l’asfittico mercato automobilistico europeo. Il big manager presente al tavolo ministeriale, il belga Raphael Torfs, è stato chiarissimo: a Bari si possono produrre solo gomme di bassa e media gamma. Le stesse, per essere chiari, che si producono in Cina e negli altri Paesi del Sud Est asiatico. E anche nel caso di cessione o vendita, quel che sembra acclarato è che, nella migliore delle ipotesi, lo stabilimento barese dovrebbe competere con quel mondo lì.

Sì, perché in ogni caso, nelle intenzioni della Bridgestone e di qualsiasi altro acquirente, è la riduzione drastica dei costi il primo vero scoglio che va superato. Sì, perché, nelle previsioni dell’azienda, non potrà che essere così almeno sino al 2020, quando, forse, l’economia europea ricomincerà a correre. Ma se questo è lo scenario e se, finalmente, il terreno è sgombro dalle illusioni e dagli “osanna”, forse una via d’uscita è ancora possibile. Perché, come tutti sanno, questa partita della Bridgestone può provocare un effetto domino nel tessuto industriale barese, pugliese e lucano. Ma perché la politica possa tradurre in fatti le invocazioni del tipo «noi non vi abbandoniamo» (Vendola) o «è iniziata una battaglia che sarà molto lunga e molto dura» (Emiliano), occorre determinare, da qui, da questo avamposto del Mediterraneo, condizioni del tutto diverse da quelle che nell’ultimo decennio hanno alimentato i fuochi di guerra in Medio Oriente, provocando, di fatto, l’isolamento e l’impoverimento dei Paesi che si affaciano sul Mare Nostrum. E se non ora, quando.

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