SCIOPERI SERI E SCIOPERI DA MEDAGLIETTA

ArcelorMittal di Taranto, i sindacalisti si rincorrono a dichiarare scioperi che cadono nel vuoto mentre contrattano con i padroni dell’acciaio quanti operai far lavorare ed esporre al rischio di contagio.
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ArcelorMittal di Taranto, i sindacalisti si rincorrono a dichiarare scioperi che cadono nel vuoto mentre contrattano con i padroni dell’acciaio quanti operai far lavorare ed esporre al rischio di contagio.


 

Tutto, fuorché uno sciopero serio. Tavoli, riunioni, videoconferenze, telefonate, proposte, scontri, appelli, invocazioni, riflessioni, minacce, promesse, parole, paroloni, incazzature e brutte figure, tutto, ma dalle diverse parrocchie sindacali non uno sciopero che meriti di essere chiamato tale. Perché con lo sciopero e nello sciopero i protagonisti diventano gli operai, e non più i sindacalisti di professione. E, da protagonisti, gli operai possono anche mettere da parte i sindacalisti che cincischiano e temporeggiano e decidere loro se per difendere la pelle la fabbrica può andare avanti al minimo o sospendere del tutto la produzione. Ecco perché in tutte le fabbriche in Italia, e in particolare all’ArcelorMittal di Taranto, lo sciopero, sotto l’urto del serio pericolo per la salute e la vita degli operai causato dal coronavirus, i sindacalisti lo hanno ventilato, proposto, minacciato, messo per iscritto, proclamato e propagandato, ma non lo hanno mai portato avanti seriamente. Ecco perché alla fine in numerose fabbriche gli operai hanno fatto da soli, o con scioperi spontanei o cercando di salvare la pelle in altro modo.
Esemplare è proprio il caso dell’ArcelorMittal di Taranto. Il 12 marzo Fim-Cisl e Usb hanno proclamato l’astensione dal lavoro “dal 13 al 22 marzo per i dipendenti diretti di Arcelor Mittal e per quelli dell’appalto” a causa della mancata dotazione di sistemi di sicurezza che potessero proteggere i dipendenti dal Coronavirus (invece Fiom e Uilm si erano autoconvocati per l’indomani dal prefetto di Taranto “per esplicitare non solo le preoccupazioni legittime dei lavoratori, ma l’evidente rischio di contagio da Covid-19 per le scarse misure adottate dall’azienda”). Uno sciopero, quindi, non per esigere la sospensione del lavoro e far stare gli operai a casa, bensì per chiedere più sistemi di sicurezza sul posto di lavoro. Ma il giorno dopo, il 13 marzo, la Fim-Cisl ha subito sospeso lo sciopero “alla luce delle comunicazioni aziendali di fermata degli impianti e della disponibilità ad esaminare le richieste sindacali (…) e in considerazione anche dell’incontro ottenuto dalle segreterie nazionali con il Presidente del Consiglio”.
Non diverse le richieste dell’Usb, che in un suo comunicatoreclamava “indispensabili interventi mirati a sanificare gli ambienti e a garantire la possibilità di operare in piena sicurezza”. Aggiungendo di aver “invitato più volte l’azienda ad attivare la cassa integrazione, ad applicare il regime minimo con la comandata e sospendere tutte le attività d’appalto. Sono queste le nostre richieste al fine di mettere in sicurezza gli impianti, ristabilire un clima di tranquillità e consentire così ai dipendenti di lavorare serenamente, senza il rischio di contagio da Covid-19”. Poi di fatto l’Usb ha limitato a qualche giorno uno sciopero al quale non ha aderito pressoché nessuno! Invece di scioperare per ottenere qualche mezzo di protezione in più per lavorare “serenamente”, molti operai hanno preferito rimanere a casa e mandare un certificato medico.
Davanti alle chiacchiere inconcludenti di Fim e Usb, di Fiom e Uilm, Arcelor Mittal ha tirato dritto, come è suo costume. Ha chiuso l’Altoforno 2 e l’Acciaieria 1che ora non le servono, ha ufficializzato la revoca della procedura di cassa integrazione guadagni ordinaria per 13 settimane (che era stata avviata nel luglio scorso e prorogata di volta in volta) e il passaggio alla cassa integrazione speciale Covid-19 legata alla normativa prevista dal Dl 18 marzo 2020, n. 18, per ben 5.000 operai che non le servono. Non era forse questo l’obiettivo che Arcelor Mittal voleva raggiungere da mesi, e su cui aveva puntato minacciando di lasciare l’Italia, cioè cassintegrare più di 4.500 operai e ridurre la produzione alle attuali esigenze del mercato? L’obiettivo che il governo Conte, prostituendosi ai padroni dell’acciaio con la reintroduzione dello scudo penale e la concessione di altri favori, aveva temporaneamente procrastinato con l’accordo del 6 marzo scorso, ora ArcelorMittal l’ha raggiunto sfruttando la congiuntura del coronavirus e il silenzio complice dei sindacati.
Ma non è tutto! ArcelorMittal ha in più preteso che oltre 3.000 operai continuino a lavorare, malgrado l’emergenza sanitaria. Infatti ha chiesto al prefetto di Taranto di continuare a produrre (e con essa altre 70 industrie dell’appalto, per altri circa 2.000 operai). E i sindacati? Fiom, Fim, Uilm, Ugl e Usb hanno inaugurato un nuovo balletto di chiacchiere e attese, proponendo “solo” 3.200 operai attivi nel siderurgico e rimandando al prefetto la decisione ultima, che non si è fatta attendere: impianti al minimo fino al 3 aprile, viene sospesa l’attività produttiva ai fini commerciali garantendo il mantenimento, la salvaguardia degli impianti e la sicurezza, impiegando fino a un massimo di 3.500 operai diretti e 2.000 dell’indotto nelle 24 ore. Insomma, 5.500 operai al lavoro ogni giorno, a rischio di contagio, mentre ArcelorMittal ha subito dichiarato che nello stabilimento tutto resta invariato e con l’assetto attuale, ossia si continua a produrre.
Con grande delusione”, come ha commentato Antonio Talò della Uilm, i sindacalisti hanno subito ripreso la solita tiritera del loro criminale mestiere di sicari nell’ombra degli operai: hanno indetto un nuovo tavolo, una nuova riunione con l’azienda sulla cassa integrazione… Complici stipendiati di assassini, a braccetto con i padroni, continuano a chiedere, valutare, implorare… continuano a fare tutto, tranne che organizzare uno sciopero serio che chiuda la fabbrica e preservi gli operai dal pericolo di contagio. Fino a quando gli operai glielo permetteranno?
L.R.

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