ILVA, ERA SPARITA ANCHE L’INTEGRAZIONE DEL 10% SULLA CIGS

La lotta degli operai cassintegrati per ripristinare l’integrazione salariale, prima inserita nel decreto Milleproroghe e poi negata. Un segnale per tutti gli operai: lottare per aumentare il contributo della CIGS si può fare.
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La lotta degli operai cassintegrati per ripristinare l’integrazione salariale, prima inserita nel decreto Milleproroghe e poi negata. Un segnale per tutti gli operai: lottare per aumentare il contributo della CIGS si può fare.


La lotta degli operai cassintegrati dell’Ilva di Taranto per l’aumento del contributo del 10% (150 euro in più al mese) per la cassa integrazione straordinaria ha avuto esito positivo. Dal decreto Milleproroghe era scomparso il finanziamento della norma per le aree di crisi complessa, come Taranto: in sostanza per 2.331 operai del Gruppo Ilva in tutta Italia (di cui 1.600 a Taranto), dichiarati temporaneamente in esubero da ArcelorMittal e rimasti in capo all’Ilva in amministrazione straordinaria. La pressione degli operai sui sindacati e sul governo ha avuto come effetto il reinserimento nel decreto dell’integrazione salariale del 10%. La mobilitazione degli operai per mettere mano al livello del reddito della cassa integrazione ha vinto. Anche per avere qualche briciola in più di reddito gli operai devono alzare la voce, altrimenti nessuno li ascolta!
L’antefatto è noto. Già prima dell’entrata di Arcelor Mittal in Ilva, quando i commissari responsabili dell’amministrazione straordinaria operavano per cedere l’Ilva a una cordata di imprese, i sindacati Fiom, Fim e Uilm avevano sottoscritto il 27 febbraio del 2017 un accordo, in sede ministeriale, che prevedeva “la cassa integrazione straordinaria per i lavoratori di Ilva in amministrazione straordinaria con la garanzia dell’integrazione per tutta la durata del periodo di commissariamento”. Già era chiaro che molti operai sarebbero andati in cassa integrazione e per farla accettare ai malcapitati si pensava di indorare la pillola con una integrazione salariale!
Questo accordo preventivo è stato ripreso e confermato con la firma dell’accordo del 6 settembre 2018 con Arcelor Mittal, imposto dal governo Lega-M5S e accettato pienamente da Fiom, Fim e Uilm e, seppur con qualche distinguo, dall’Usb. Il piano occupazionale previsto lasciava ad ArcelorMittal libertà di manovra nella gestione della forza lavoro operaia. Infatti la nuova proprietà, Am Investco, ha espulso dal ciclo produttivo 6.000 operai su oltre 14.000, attraverso la cassa integrazione straordinaria a zero ore, nonché prepensionamenti ed esodi volontari anticipati e incentivati.
Naturalmente sono stati buttati fuori gli operai che nella gestione Ilva avevano dato più fastidio. In particolare a Taranto fra gli operai in Cigs non assorbiti da Arcelor Mittal c’erano proprio quelli che più di tutti avevano contrastato le pessime condizioni di lavoro nella fabbrica tarantina e il disastro ambientale da essa causata. Le scelte, reparto per reparto, sono state mirate. Via per almeno cinque anni gli operai rompiscatole, quelli scomodi, che non piacevano ai capireparto, i protagonisti non solo delle battaglie dal 2012 in poi fuori e dentro i cancelli della fabbrica ma anche della rottura con i sindacati, a partire dalla Fiom Cgil, di cui molti avevano fatto parte in passato, per poi stracciarne la tessera. Molti operai, un migliaio, senza più prospettive all’Ilva, hanno accettato l’incentivo e si sono licenziati: i 2.600 sono diventati 1.600.
Ebbene, lo scorso dicembre l’integrazione salariale del 10% ai cassintegrati nelle aree di crisi complessa era scomparso dal decreto Milleproroghe. Carenze di coperture, non c’erano soldi, la versione informale. Di certo un problema per gli operai, che avrebbero visto il già magro assegno ridursi ulteriormente dal dicembre scorso. Per questo gli operai hanno formato un presidio davanti ad alcune entrate, fino a occupare la bretella stradale fra il siderurgico tarantino e la raffineria Eni, nei pressi del varco mezzi pesanti, bloccando l’accesso ai cancelli.
Non è superfluo precisare che si trattava di un gruppo di operai aderenti al sindacato Usb o comunque da esso mobilitati. Un sindacato che prima ha firmato un accordo capestro per gli operai, che decretava l’espulsione per migliaia di essi, poi, spinto dal malcontento operaio, si è mobilitato per il “rispetto” dell’accordo!
Così come le altre sigle sindacali hanno inviato una lettera al premier Giuseppe Conte e ai ministri del Lavoro e dello Sviluppo Economico, Nunzia Catalfo e Stefano Patuanelli, chiedendo un “intervento immediato” per “fare chiarezza e, soprattutto, dare risposte a impegni già assunti dal governo Conte 2 all’interno del Milleproroghe e poi saltati all’ultimo minuto, e ricordando che l’integrazione è prevista da due accordi firmati in sede ministeriale, compreso quello del 6 settembre 2018 con ArcelorMittal che diede il via libera al passaggio degli stabilimenti alla multinazionale dell’acciaio”.
Alla fine, nel giro di pochi giorni, i soldi sono stati trovati. La lotta degli operai ha permesso di risolvere la questione dell’integrazione del trattamento di cassa integrazione guadagni straordinaria. L’integrazione è stata prorogata per l’anno 2020, per un importo di spesa di 19 milioni di euro. L’Usb può continuare a “ringraziare” il neo prefetto di Taranto Demetrio Martino “per aver ascoltato le istanze dei lavoratori e per essere intervenuto in prima persona per la risoluzione del problema”. Per gli operai è la conferma che anche per ottenere i più piccoli risultati devono contare sulla propria forza.
L.R.

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