Continua la lotta dei lavoratori Innse

Tutti i giorni da più di un anno un gruppo di lavoratgori dell’Innse sono davanti ai cancelli. Da anni sono in vertenza con l’azienda per difendere il futuro della fabbrica e dei posti di lavoro. In mezzo c’è stato un accordo firmato dalla Fiom nazionale ma bocciato in assemblea dai lavoratori (“era un piano di dismissione e non di ripresa”), anni di mobilitazione per difendere produzione e macchinari, decine di cause in tribunale, denunce, articoli e dichiarazioni stampa diffamatori da parte dell’azienda e persino lettere di intimidazione a casa degli operai. Infine tre licenziamenti per rappresaglia. Una vertenza difficile, […]
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Tutti i giorni da più di un anno un gruppo di lavoratgori dell’Innse sono davanti ai cancelli. Da anni sono in vertenza con l’azienda per difendere il futuro della fabbrica e dei posti di lavoro. In mezzo c’è stato un accordo firmato dalla Fiom nazionale ma bocciato in assemblea dai lavoratori (“era un piano di dismissione e non di ripresa”), anni di mobilitazione per difendere produzione e macchinari, decine di cause in tribunale, denunce, articoli e dichiarazioni stampa diffamatori da parte dell’azienda e persino lettere di intimidazione a casa degli operai. Infine tre licenziamenti per rappresaglia.

Una vertenza difficile, iniziata, mediaticamente parlando, nell’estate 2009, quando, dopo 15 mesi di lotta, quattro operai e un funzionario FIOM salirono sul carroponte, a oltre 12 metri di altezza, rimanendo lì per oltre una settimana, fino a quando non ebbero garanzia che la Fabbrica non avrebbe chiuso. Da lì il passaggio di proprietà nelle mani del gruppo Camozzi e la riassunzione di tutti gli operai. “Quella della Innse divenne il simbolo di tutte le lotte contro le crisi e le ristrutturazioni in corso. Fu seguita da tutto il paese e diede coraggio a tutti, dimostrando che la lotta paga, anche quando la situazione sembra disperata”, si legge in una nota della Fiom/Il sindacato è un’altra cosa.

Negli anni, gli impegni presi dal nuovo proprietario non sono stati rispettati. Oggi quel terreno su cui sorge la Fabbrica sembra un museo di archeologia industriale. La forza lavoro è dimezzata: sono rimasti in sedici a lavorare. Gli altri sono in cassa e l’unica “rotazione” che fanno è quella al presidio ai cancelli con tre licenziati. L’unico macchinario installato non è mai stato avviato per svariati e non ben definiti problemi tecnici. Le assunzioni tanto sbandierate non si sono viste. L’unico segno di vita oltre il cancello sembra essere la ristrutturazione della palazzina degli impiegati, quasi a costo zero con gli incentivi dello Stato: una bella palazzina di vetro in mezzo alle sterpaglie e i capannoni abbandonati, che sembra minacciare una destinazione dell’area tutt’altro che industriale. Eppure quel terreno e quel capannone di 30000 mq erano stati acquistati nel 2009 al prezzo simbolico di un euro; di fatto regalato, alla chiara intenzione che l’area, altrimenti trasformabile in verde e giardini pubblici, dovesse essere destinata allo sviluppo industriale, all’aumento di mano d’opera e di posti di lavoro, all’incremento degli organici e degli addetti alla produzione dell’Innse. Il Comune di Milano, allora garante, sembra non accorgersi che negli anni quell’accordo, di cui si fece promotore, è via via stato svuotato dalla mancanza di un piano industriale credibile.

da controlacrisi.org

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