La strage di Avola: Quando i braccianti chiedono pane ricevono piombo

Tratto da Lotte Operaie n. 9 gennaio 1969 I braccianti del siracusano si trovavano in sciopero dalla metà del mese di novembre 1968. Rivendicavano condizioni di lavoro più umane; il rinnova del contratto di lavoro (1). Lunedì 2 dicembre 1968, mentre manifestavano in corteo lungo le vie di accesso ad Avola, vengono presi a colpi d’arma da fuoco dalla polizia, che in grandi forze era accorsa da tutta l’isola. Due giovani braccianti vengono uccisi, mentre altri cinquanta restano feriti, dei quali alcuni molto gravemente.  È un altro anello che si aggiunge alla lunga catena di eccidi, commessi dalla polizia […]
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Tratto da Lotte Operaie n. 9 gennaio 1969

I braccianti del siracusano si trovavano in sciopero dalla metà del mese di novembre 1968. Rivendicavano condizioni di lavoro più umane; il rinnova del contratto di lavoro (1). Lunedì 2 dicembre 1968, mentre manifestavano in corteo lungo le vie di accesso ad Avola, vengono presi a colpi d’arma da fuoco dalla polizia, che in grandi forze era accorsa da tutta l’isola. Due giovani braccianti vengono uccisi, mentre altri cinquanta restano feriti, dei quali alcuni molto gravemente.

 È un altro anello che si aggiunge alla lunga catena di eccidi, commessi dalla polizia borghese contro i braccianti agricoli del meridione!

La strage ha suscitato una profonda indignazione nella classe operaia. Benché i partiti della borghesia e della piccola-borghesia abbiano cercato di disapprovare l’episodio di sangue scindendo ipocritamente l’operato della polizia da quello dello Stato, per scagionarsi dalla loro responsabilità politica, gli operai hanno esternato in tutta Italia la loro viva indignazione. In tutte le città i lavoratori hanno dato vita spontaneamente a scioperi prolungati e a manifestazioni di piazza. A Milano si sono avute interruzioni del lavoro e manifestazioni di solidarietà in tutte le maggiori fabbriche. A Genova lo sciopero è durato, in alcuni settori, tutta la giornata. Lo stesso è avvenuto a Napoli; a Mestre, a San Donà di Piave, ove gli operai degli stabilimenti Papa e Kriza hanno scioperato in segno di solidarietà per più di 24 ore.

Ovunque gli operai hanno reagito con energia, senza indietreggiare di fronte ai massicci apparati polizieschi. Non si sono fatti abbindolare dalle lacrime di coccodrillo della democrazia piccolo-borghese, invocante il rispetto della vita umana in nome dell’autorità dello Stato.

I braccianti agricoli del meridione sono stati sempre trattati dallo Stato dei capitalisti e dei proprietari fondiari come carne da macello. Dalla strage di Portella delle Ginestre ad Avola si potrebbero citare centinaia e centinaia di episodi sanguinosi, di eccidi, tutti legati ad una sola logica; tutti ubbidienti alla stessa logica: la repressione sistematica di ogni azione operaia.

L’agitazione dei braccianti di Avola era più che legittima, profondamente giusta: si lottava per un pezzo di pane. L’indigenza e le misere condizioni di vita dei braccianti meridionali sono fatti cronici (2). Su 300 giornate lavorative all’anno un bracciante riesce a lavorare in media, quando va bene, solo 150 giorni. E questo lavoro si concentra in alcuni periodi dell’anno: novembre-dicembre per la semina; giugno-luglio per la raccolta del grano; settembre-ottobre per la vendemmia e la raccolta dell’ulivo. Per il resto dell’anno disoccupazione.

I proprietari fondiari, speculando sull’esuberanza di manodopera, fanno il bello e il cattivo tempo, costringendo i braccianti ad accettare salari più bassi di quelli contrattuali; compiere lavoro straordinario non retribuito; ad effettuare prestazioni gratuite.

Il salario è ovunque basso. Ma oltre ad essere di fame, poiché è saltuario abbassa, nei periodi di disoccupazione, il consumo della famiglia operaia al minimo. Alla nutrizione insufficiente si aggiunge l’angustia dell’alloggio. A Matera, a Sant’Andrea d’Andria, a Monterosso, a Palma Montechiaro e via dicendo le abitazioni delle famiglie bracciantili sono in genere seminterrati di una sola stanza o piccole casupole, dove la vita, in tutti i suoi aspetti (mangiare, dormire, procreare) si svolge in promiscuità con le bestie. La condizione di vita dei braccianti oscilla dunque tra il pauperismo permanente e il livello di sussistenza minima vitale.

Se si considera l’assistenza malattia fornita ai braccianti ci accorgiamo quale profondo divario esiste tra questi e gli altri operai salariati e come tale assistenza si riduce per lo più ad una beffa. Le leggi in vigore tengono conto solo dei lavoratori che risultano iscritti agli elenchi anagrafici. Questi debbono avere un’attribuzione minimo di 51 giornate lavorative all’anno. I lavoratori che non raggiungono questo minimo non hanno diritto ad alcuna prestazione assistenziale. Ad essi bisogna aggiungere un numero considerevole di salariati agricoli, che pur lavorando, non vengono iscritti arbitrariamente agli elenchi anagrafici. Così tanto i primi quanto i secondi, unitamente alle loro rispettive famiglie, perdono il diritto a qualsiasi assistenza. Se ad essi si aggiungono i braccianti depennati dagli elenchi anagrafici si vede bene a cosa si riduce, per uno strato di braccianti, la “tutela contro le malattie”.

Per coloro che usufruiscono della mutua, poiché le indennità giornaliere sono irrisorie, se abitano lontano dai centri abitati non hanno alcuna convenienza a servirsene, perché la spesa di trasporto per raggiungere gli ambulatori supera di norma l’utilità del beneficio assistenziale.

Queste sono le condizioni di vita dei lavoratori agricoli. Perché allora quando i braccianti chiedono pane ricevono piombo? Perché gli interessi dei proprietari fondiari e quelli dei capitalisti sono in contrasto con quelli dei braccianti e i proprietari fondiari ed i capitalisti possono mobilitare la forza armata dello Stato per imporre ai braccianti la loro volontà. Questa è la realtà sociale; che viene nascosta nel concetto di popolo, nel concetto di “interesse nazionale”; è la vera realtà dei rapporti fra le classi che i democratici di tutte le tinte si ingegnano a mascherare con i falsi discorsi sull’imparzialità e sulla neutralità dello Stato, sugli abusi degli organi di polizia e così via dicendo.

Ad Avola la polizia ha sparato sui braccianti perché, quale braccio armato dello Stato dei padroni: dei capitalisti e dei proprietari fondiari; ha ritenuto così di meglio fare gli interessi di costoro. Essa era accorsa ad Avola da quasi tutta la Sicilia appunto per svolgere tale compito. Gli abusi da essa commessi giuocano nella vicenda la stessa parte del fumo quando arde la legna.

I lavoratori della terra queste cose le sanno per lunga esperienza. Ci vuole tutta la faccia tosta dei signori “social-comunisti” per invocare pubblicamente, in nome dei lavoratori, una “polizia democratica”, una “polizia al servizio dei cittadini”. La polizia è un apparato armato del presente Stato democratico. E questo Stato che si spaccia per Stato di tutto il popolo è soltanto ed esclusivamente uno strumento di dominio dell’oligarchia finanziaria, dei capitalisti e dei proprietari fondiari, su tutte le masse salariate.

In questo periodo lo Stato democratico pensa ad addestrare corpi speciali di repressione anti-operaia, da impiegare nel corso degli scioperi e nelle manifestazioni di piazza. Perciò, coloro i quali cianciano sullo “Stato di tutto il popolo”, sulla polizia a “servizio dei cittadini”, ecc. hanno un solo fine: quello di disarmare ideologicamente il proletariato di fronte al proprio nemico di classe.

La strage di Avola è uno di quegli episodi della lotta di classe, che aiuta in modo incomparabile a prendere coscienza della natura dello Stato. I braccianti, gli operai, tutti i lavoratori debbono aprire gli occhi su questo problema fondamentale, respingendo le frottole interessate dei partiti pacifisti, assimilando il principio che senza lotta rivoluzionaria non è assolutamente possibile uscire dalla schiavitù capitalistica del lavoro salariato.

Noi internazionalisti ci battiamo affinché le masse sfruttate s’impadroniscano di questo principio; affinché appoggino i nostri obiettivi e la nostra lotta classisti; affinché, venendo a rafforzare le nostre file contribuiscano allo sviluppo del partito di classe, guida insostituibile della rivoluzione.

(1) Le richieste erano le seguenti: a) 10% di aumento sulle paghe; b) abolizione delle zone salariali A e B; c) entrata in funzione delle commissioni comunali per le qualifiche, la contrattazione dei livelli di occupazione e il rispetto dei contratti.

(2) È per cinismo professionale che i signori bempensanti: l’industriale del Nord e l’intellettuale progressista se ne dimostrino scandalizzati. Costoro però al piombo della polizia non sanno trovare altro sostituto che l’elemosina statale, salvo poi a .giustificarne tempestivamente l’uso quando entrano in ballo gli interessi superiori della salvaguardia del profitto e del sacco dell’oro.

Milano redazionale: archivio 1968-1969.

 Edizione a cura di
RIVOLUZIONE COMUNISTA
SEDE CENTRALE: P.za Morselli 3 – 20154 Milano
e-mail: [email protected]
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