CHI INQUINA NON PAGA

Gli ambientalisti hanno esaminato gli ultimi dieci anni di maxi-inquinamenti provati. E hanno calcolato che tra il 2004 e il 2013 le aziende italiane non hanno risarcito danni per 220 miliardi di euro di CORRADO ZUNINO   Dice, un nuovo dossier dei Verdi, che in Italia chi inquina non paga. Ilva di Taranto, Caffaro di Brescia, Eternit di Casale Monferrato, il petrolchimico di Agusta in Sicilia, l’ex Stoppani di Cogoleto sulla costa ovest genovese. Fabbriche in funzione e fabbriche dismesse hanno inquinato  –  e lo ha certificato una procura o un’istituzione di Stato  –  e non hanno mai versato […]
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Gli ambientalisti hanno esaminato gli ultimi dieci anni di maxi-inquinamenti provati. E hanno calcolato che tra il 2004 e il 2013 le aziende italiane non hanno risarcito danni per 220 miliardi di euro

di CORRADO ZUNINO

 

Dice, un nuovo dossier dei Verdi, che in Italia chi inquina non paga. Ilva di Taranto, Caffaro di Brescia, Eternit di Casale Monferrato, il petrolchimico di Agusta in Sicilia, l’ex Stoppani di Cogoleto sulla costa ovest genovese. Fabbriche in funzione e fabbriche dismesse hanno inquinato  –  e lo ha certificato una procura o un’istituzione di Stato  –  e non hanno mai versato un euro per risarcire i danni al territorio e ai suoi abitanti. Il danno ambientale comprende il ricovero in ospedale dei cittadini ammalati a causa dell’inquinamento, i costi ambientali e quelli delle bonifiche. Già. In Europa “chi inquina paga” è un dogma garantito dalla direttiva europea 35 del 2004, in Italia no.

Angelo Bonelli, portavoce degli ambientalisti, a inizio 2015 ha preso in esame gli ultimi dieci anni di maxi-inquinamenti provati e ha calcolato che tra il 2004 e il 2013 le aziende italiane non hanno pagato danni per 220 miliardi di euro. Alla prescrizione penale  –  spesso sopravvenuta, come hanno illustrato gli ultimi processi per l’amianto dell’Eternit o per la discarica di Bussi nel Pescarese  –  è seguita la prescrizione economica. In molti casi, l’Ilva di Taranto per esempio, le aziende sotto accusa continuano a produrre e a bruciare, a sversare.

Nello stesso periodo considerato  –  2004-2013  –  i tribunali italiani hanno preso atto di un milione e 552 mila prescrizioni. Di queste, ottantamila riguardano reati ambientali. Ci sono 7.300 chilometri quadrati da bonificare nel paese, che sono pur sempre il 2,4 per cento della sua superficie. Trecento comuni interessati per sette milioni di persone coinvolte. I siti inquinati di interesse regionale sono oltre 33 mila, trentanove quelli di interesse nazionale. I costi di bonifica per ettaro stanno tra i 450 mila e il milione di euro, ma i soldi (pubblici e privati) per avviare le pulizie delle terre e delle acque sono dati con il contagocce. Dal 2002 al 2013 sono stati spesi quattro miliardi di euro: 2,3 di Stato e 1,8 delle aziende.

Il danno ambientale nel Sin di Taranto (i dintorni dell’Ilva, sito di importanza nazionale da bonificare) è stimato dai custodi giudiziari della Procura della Repubblica in 8,5 miliardi. Per la discarica abruzzese di Bussi il ministero dell’Ambiente ha valutato altri 8,5 miliardi. Per la centrale Enel di Polesine Camerini a Porto Tolle, provincia di Rovigo, l’Ispra, che è il controllore pubblico dell’ambiente, ha calcolato il danno ambientale in 2,7 miliardi con una relazione scientifica depositata nel procedimento penale che ha portato nel 2011 alla condanna dell’ex amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni. Nel petrolchimico di Priolo-Melilli-Augusta, provincia di Siracusa, solo per disinquinare l’area servirebbero 10 miliardi a cui vanno aggiunti i danni sanitari e ambientali arrivando a quota 12 miliardi. A Brescia la Caffaro, produttrice di policlorobifenili (Pcb), ha inquinato per cinquant’anni e fino al 1983: il danno stimato dall’Ispra è di 1,5 miliardi. Il fiume Toce ha portato il Ddt della Syndial (Eni) nel Lago Maggiore e il Tribunale di Torino nel luglio 2008 ha sentenziato la condanna dell’azienda indicando il danno per il periodo che va dal 1990 al 1996 in 1,9 miliardi. Per i composti di cromo della Stoppani dell’area Cogoleto, che ha cessato l’attività nel 2003, a fronte di 1,3 miliardi da risarcire, la pubblica struttura commissariale ha sostenuto interventi per 400 milioni di euro. I privati, zero.

L’Istituto superiore di sanità ha stimato in diecimila i casi di mortalità in eccesso in 44 siti di interesse nazionale (oggi sono, appunto, solo 39). “Incrementi significativi dell’incidenza di tumori maligni a carico di numerose sedi sono stati messi in evidenza dalla ricerca”, si legge. Uno studio dedicato al sito di Augusta-Priolo e di Gela sostiene che la bonifica dell’area salverebbe 47 persone l’anno e farebbe risparmiare 10 miliardi di euro in trent’anni.

La dotazione del ministero dell’Ambiente per le bonifiche  –  ultimo dato conosciuto quello del 2013  –  è di un milione di euro. Un milione. Le uniche risorse davvero disponibili arrivano dalle transazioni con i privati, che fin qui hanno dato 540 milioni. L’Eni ha in corso una maxi-trattativa con il ministero dell’Ambiente per chiudere nove contenziosi aperti per la bonifica di nove siti industriali.

Angelo Bonelli, il coordinatore dei Verdi che ha curato il dossier, dice: “Chi ha inquinato e attentato alla salute dei cittadini in Italia non ha mai pagato. Le conseguenze economiche di questo danno ambientale sono state elevate negli indotti dell’agricoltura, della pesca, nel turismo e nel commercio. Elevate e poco studiate”. I Verdi chiedono l’introduzione del sequestro dei patrimoni per chi ha inquinato, “bisogna seguire la procedura utilizzata per i sequestri per mafia”.

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